Lo spunto per questa discussione risale a qualche giorno fa, quando Luca Morandi ha posto l’interrogativo su una delle mie pagine facebook: questa.
Si stava commentando uno dei modelli robotici più avanzati per ciò che concerne il movimento: DURUS.
Sì, nome singolare, per una macchina che consiste in un busto e un paio di gambe.
Il suo unico scopo: camminare.
Come un essere umano.
Il video è dello scorso Luglio, della Amber Lab. Durus cammina come un uomo, ovvero in modo sciolto. Un po’ dinoccolato. Spontaneo, verrebbe da dire.
“Come un giovanotto di colore a Brooklyn”.
Ecco, direi che la Amber Lab ha centrato il suo obiettivo se, osservando il robot camminare, riusciamo a evocare immagini così folkloristiche.
La camminata è, finora, la branca della robotica forse più studiata. Il movimento umano è soggetto a infinite variabili e micro-correzioni, durante l’andatura.
Complicatissimo, quindi, riuscire a emularlo.
Perché, come quasi sempre, nella robotica umanoide, parliamo di emulazione.
L’idea, una delle tante e non certo la principale, è sempre quella: creare un nostro duplicato robotico.
Un uomo artificiale che ci sostituisca nei compiti più sgradevoli o gravosi: scavare le miniere di carbone, immergersi a profondità proibitive, fare il bigliettaio notturno nella metropolitana, giocare alla guerra.
Ma abbiamo davvero bisogno della forma umana, per questi compiti?
Apparentemente… no.
E probabilmente la spiegazione è nella Zona Perturbante.
Ne abbiamo già parlato.
Quanto più un robot assomiglia a un essere umano, tanto più provoca disagio nell’osservatore che intuisce di essere di fronte a qualcosa che imita, soltanto, la vita, ma che non vive.
Il frutto di una simulazione particolarmente elaborata.
Tanto che, un eventuale bigliettaio nella metropolitana, in forma umanoide, forse, causerebbe moti spontanei di violenza (si picchiano gli umani, figurarsi picchiare un robot stupido che ripete a pappagallo il suo programma di accoglienza). Meglio, quindi, una biglietteria automatica. Un muro di metallo, freddo e non empatico, che non fa altro che incassare i soldi e sputare i biglietti.
Esistono già.
E per la guerra, siamo sicuri che la forma umana sia la più efficace per il combattimento terrestre, in aria e in acqua?
Se ne può discutere.
https://www.youtube.com/watch?v=-3MxuklTfzk
E via via per tutti gli altri lavori usuranti e pericolosi.
Le catene di montaggio sono già dotate di robot sofisticati, che fanno lo stesso lavoro di dieci operai in metà tempo.
O che cucinano meglio di uno chef pluristellato.
Quindi, a cosa serve un robot di forma umana?
È una domanda che in narrativa mi sono posto spesso.
E la risposta, la mia, è una sola: ci serve la forma umana per poter replicare l’intelligenza umana.
Essendo, quest’ultima, profondamente connessa con la nostra natura.
In altre parole, la nostra intelligenza è tale perché il nostro cervello è inserito nel nostro corpo, composto da quattro arti e una serie di organi di senso.
A corpo e funzioni diverse corrisponderebbe un’intelligenza diversa.
Quindi, per replicare la nostra intelligenza autocosciente, siamo costretti a creare un essere artificiale che ci imiti, in tutto e per tutto.
Quest’idea comporta anche un inedito vantaggio: la creazione di una intelligenza che, per quanto artificiale, sia simile alla nostra. Quindi in un certo senso prevedibile e, di conseguenza, controllabile.
Il terrore di molti scienziati, tra cui Stephen Hawking, rispetto alla singolarità che dovrebbe portare alla nascita di una intelligenza artificiale autocosciente è legato, anche, all’imprevedibilità di questa intelligenza, perché sviluppatasi spontaneamente, in un ambiente non controllato e secondo una forma del tutto nuova.
Forma diversa, intelligenza diversa.
L’idea che un futuro Skynet possa determinare in un nanosecondo il fato della nostra specie, in questo caso, non è poi così impossibile.
D’altronde, un’intelligenza simile alla nostra, in un corpo limitato come il nostro, ha le nostre stesse possibilità, vede il mondo coi nostri stessi occhi, a sua misura, è, in un certo senso, docile, perché simile a noi.
Sì, io sono uno di quelli che non condivide la teoria del conflitto tra uomo e macchina, se quest’ultima è uguale a noi.
Ok, quindi la forma umana nei robot ha uno scopo. Almeno in teoria.
Ma che applicazione avrebbe?
Assisteremo davvero alla nascita di parchi divertimenti stile Westworld, dove stilosissimi androidi di ultima generazione intrattengono visitatori sempre più pervertiti nei loro costumi e morbosi nella loro sessualità?
Probabile.
Anzi, a dire il vero, una certa robotica destinata prevalentemente all’ambito dell’intrattenimento per adulti c’è già, da anni.
Le Real Doll, ad esempio, sono nient’altro che “robot” umanoidi costruiti in morbido silicone e destinati ai giochi in camera da letto.
Sono poco più che manichini di gomma, dotabili di una serie di optional che incrementano il grado di umanizzazione: riscaldamento delle parti, battito delle ciglia, emissione sonore.
Ma non solo sesso.
L’idea di avere accanto un assistente o accompagnatore pulito, preciso e affidabile a cui poter dare incarichi a ogni ora del giorno e della notte e che non protesterà mai per un aumento di stipendio o per le ferie potrebbe non sembrare una pessima idea.
Certo, come un ogni campo di industria, l’incremento degli studi e la spinta repentina alla realizzazione di robot sarà determinata dal primo campo di interesse in cui tale applicazione sarà valutata come altamente remunerativa.
In altre parole, il settore che porta più soldi vedrà il nascere dei primi robot altamente avanzati che sostituiranno la presenza umana in uno o più ambiti.
Una realtà che sembra ancora lontanissima.
Come lontani ci sembravano, nei vicini anni Ottanta, i nostri smartphone.
Meglio fare attenzione…