Ieri ho rivisto RoboCop di Paul Verhoeven. E di Peter Weller, Edward Neumeier e Michael Miner.
Anno (di produzione) 1987, la città di Detroit è in bancarotta (cosa che sarebbe puntualmente accaduta nel mondo reale, circa 27 anni dopo), preda del crimine organizzato e schiava di un american way of life improntato sulla tanto cara idea futuristica della cibernetica applicata alla carne.
Un mondo di valori sovvertiti e espliciti, uguali per certi versi ai nostri attuali, scherzare, anzi giocare sulle stragi e la guerra, pubblicizzare un cuore artificiale, mercificare il sesso per un dollaro (ma magari anche gratis, in streaming). Più penso al RoboCop del 1987 e più vedo noi stessi, ma con una piccola differenza: nella società distopica di Verhoeven non c’era ipocrisia. Al contrario, dalle nostre parti essa domina, essendo l’unico, vero fondamento. Tanto che, mi vien da pensare, viviamo in una sorta di vittorianesimo cyberpunk, in cui contano soldi e apparenza.
In RoboCop conta, complice la crisi economica, sopravvivere.
E questo è RoboCop, ridotto ai minimi termini, un’epopea della sopravvivenza. Da ogni punto di vista.
Una società al collasso che è conscia del proprio disvalore, della propria grettezza, dell’avere raggiunto l’apice del progresso morale, e che quindi attende con fatalismo, ma non senza l’eroismo dei singoli, la caduta. Ineluttabile.
La società è Detroit, un microcosmo in una megalopoli. Connessa al resto del mondo, animato da conflitti locali, dal network delle mega-corporazioni.
Ci siamo dentro. Da noi s’è voluto preservare, complice la succitata ipocrisia, una parvenza di stile, per illuderci che le cose sono diverse e sotto controllo, e intanto… se ricordate… c’è gente che ammazza altra gente, sotto gli occhi della telecamera, a colpi di machete e poi… si mette a pontificare, imbrattata di sangue, come fosse la cosa più normale del mondo.
L’eroismo dei singoli, la spinta alla sopravvivenza, ma soprattutto, visti e considerati gli eventi mostrati nel film, l’auto-affermazione di sé, quale unico mezzo d’espressione.
Quando tutto va a rotoli, l’unica cosa che resta da fare, mancando ormai pensatori in grado di provocare cambiamenti epocali coi loro scritti, è reclamare, con forza e violenza, se necessario, la propria individualità.
Ragion per cui, al di là della profonda satira sociale, io leggo RoboCop come l’epopea di un uomo comune, vittima di eventi incoercibili, che ritrova se stesso, la propria coscienza, i propri ricordi e che decide di vendicarsi dei propri carnefici, in ciò riaffermando la propria presenza. Un insieme di valori arcaici, che poi corrispondono a ciò che ci consente, in quanto specie vivente e sociale, di ricostruire la civiltà ogni qual volta essa collassi. È già successo, succederà.
Che poi, questa affermazione del proprio io sia illusoria, data la caducità della nostra vita, può essere interessante argomento di conversazione, ma non vincolante. L’unicità della esistenza umana non è illusoria, è nella capacità di cambiare le cose in un tempo così breve, e nel ricordo di coloro che verranno dopo di noi.
Verhoeven sceglie un registro narrativo d’orrore. Non ci risparmia dettagli truculenti, corpi smembrati, esplosioni di sangue e carne. Bisogna violare la carne, perché essa possa accettare il metallo. Una scelta che predilige la vista: mostrare l’orrore anziché nasconderlo al buio, lasciando arrivare allo spettatore solo la suggestione di esso. Al contrario, RoboCop mostra tutto: genitali spappolati da proiettili, budella, ossa, volti tagliati, corpi che precipitano, corrosi nell’acido, rimasugli di intelligenza, cervelli annessi alla macchina. Il futuro è senza menzogna, il corpo umano un organismo di sangue e carne, violato dai suoi simili, per mezzo di altre macchine. Sembra quasi suggerire un materialismo imperante che nega, e al tempo stesso obbliga a esplodere, quei valori umani, creati ad arte perché evitassimo d’impazzire nella consapevolezza che siamo piccole creature che occupano un pezzo di roccia fertile alla deriva nello spazio profondo, insieme alla galassia in cui siamo immersi.
La morte è strumentale, in RoboCop, è accessoria. Direi quasi decorativa. Ciò che conta è, avendola sfangata, continuare a vivere per il tempo e nella forma che ci sono stati concessi.
E così, arriva il Cyborg. Mezzo robot, mezzo uomo, programmato a puntino per corrispondere a determinate necessità.
Programmazione poi successivamente violata, in piena tradizione da mito del golem (che si ribella all’uomo, creatore e programmatore), con una differenza però sostanziale: RoboCop non è una creatura artificiale neonata, è un essere umano che è stato riassemblato e che è rinato, nella propria coscienza, decidendo, ancora una volta, di affermarsi.
Filosofia della rinascita, quindi. Con un passato di gioia, ma soprattutto di dolore, che è soltanto un fardello, rappresenta valori ormai divenuti mere diapositive. A rappresentare un mondo ormai morto, per il protagonista, ma che allo stesso tempo contribuiscono a dargli forza.
Un mostro di Frankenstein o meglio ancora, un Prometeo, che ruba agli uomini il segreto dell’essere umani. Una cosa che, coloro che comprano tutto “per un dollaro”, ormai hanno smarrito da un pezzo.