Tralasciando la storia personale, che mi ha visto al cinema, due sere di seguito, per riuscire a completare la visione di Pacific Rim, dato che la prima sera il proiettore ha dato forfait, di questo film ne ha parlato tutta la rete.
È stato, ed è, visto che il momento non è ancora passato, lo spartiacque, la rivincita, il motivo della polemica sterile contro qualcosa che non si riesce a (né si vuole) comprendere, ma soprattutto è il sogno della nostra infanzia.
Questa è la forza di Pacific Rim, una comunicazione silenziosa tra affinità elettive.
Tra coloro che guardano ai mostri giganti (e intendo sia mostri che robot) come al giusto traguardo di un percorso fantastico iniziato decenni prima, contro tutti, a cominciare dai nostri genitori che certe cose le consideravano pericolose.
Perché il nostro divertimento è immaginare colossi.
Guillermo del Toro lo capiamo meglio di chiunque altro. E lo ringraziamo perché è riuscito non solo a raffigurare l’immaginario fantastico del suo pubblico, ma a non sfigurarlo, sancendo infine un equilibrio tra storia, per quanto si aggiri nei rassicuranti confini dello stereotipo narrativo, e esigenze becere che sempre il marketing attribuisce al pubblico.
Del Toro ha trascinato la gente al cinema, tanta e in ogni dove, come non avevo mai visto..
E ha trattato con rispetto, ragion per cui è osteggiato dai seguaci del realismo a tutti i costi, la visione febbrile della vita che noi tutti condividiamo: una vita fantastica, fatta di prodigi.
La noia e la depressione di confini rassicuranti e tangibili: il reale, lo lasciamo volentieri altrui.
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Travis Beacham, sceneggiatore, stava passeggiando lungo la costa californiana, la mattina presto: ha avuto la fortuna di godere di uno spettacolo unico, banchi di nebbia sull’acqua increspata del’oceano, che avevano assunto la forma di una creatura gigantesca.
Del Toro, per parte sua, pensa a Tetsujin-28, a noi noto come Super-Robot 28, come fonte di ispirazione principale per i suoi Jaeger (cacciatori), al Colosso di Francisco Goya, e alla Grande Onda di Kanagawa. Unite tutti questi fattori e comincerete a vedere anche voi i Kaiju, parola giapponese che indica una “strana bestia”, che un po’ riecheggia con la parola latina monstrum, il prodigio.
A prescindere quindi dall’intreccio di Pacific Rim, il concetto alla base di tutto è la sfida contro il prodigio, tramutando in prodigio noi stessi: gli uomini.
Del Toro inscena tutto ciò con una cura nel dettaglio mai vista prima in un film di sole due ore. La cosa che più ho apprezzato è piccolissima, rispetto alle decine di metri degli assoluti protagonisti della pellicola: l’usura.
Le parti consumate delle apparecchiature, delle uniformi, la ruggine che affligge le pesanti infrastrutture che sono la base operativa dei Jaeger. La cura maniacale dietro ogni piccola sfumatura, mostrata per una volta non con mera funzione didascalica, ma per completare il quadro generale di questo nuovo immaginario, derivativo, certo, evidente e mai negato, ma orchestrato con gusto tale da divenire pietra miliare.
L’unico difetto che gli troveranno, a pensar male, è che tutto questo l’ha creato un messicano, ossia Del Toro, non un Lucas o qualcun altro.
Ma il mondo, ringraziando Dio, se ne frega. E guarda a Del Toro come a colui che ha reso possibile l’impossibile.
Perché di questo si tratta, credere talmente tanto in un progetto all’apparenza scomodo (perché chi ci crede, ai robot giganti contro i mostri?) e realizzarlo con la medesima cura di un film d’autore. E parlo di cura, perché qui di depressione non c’è traccia.
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Gipsy Danger, il Jaeger dei protagonisti, è dipinto con lo stesso schema di un aereo della seconda guerra mondiale. E a ben guardare, l’atmosfera retro è onnipresente, insieme al gusto cromatico e alla passione per la contaminazione culturale.
Anche in questo caso, nessuna volontà di alessandrinismo: i russi vengono presentati biondi, imponenti e ossigenati, donne comprese, i cinesi come tanti cloni, alle prese con un Jager enorme e rosso, gli australiani come aggressivi e cazzuti, i leader americani paternalistici e carismatici, la giapponese (Mako), brillante e emotiva, di sicuro la vera protagonista, perché se alla controparte, Raleigh (Charlie Hunnam), viene dedicato il ruolo del prescelto in stile Top Gun (e non è un paragone troppo azzardato, visto che si sussurra che al posto di Idris Elba avrebbe dovuto esserci Tom Cruise), che prima viene affossato dal trauma emotivo e poi risorge, un trauma emotivo di lusso, incontestabile nel suo essere comune, a Mako (Rinko Kikuchi), vengono dedicate le sequenze più belle del film, lei bambina che incontra un Kaiju enorme, che distrugge ogni cosa.
Flashback che ha la duplice funzione di costruire la co-protagonista, spiegarne al volo i traumi e la stranezza/insicurezza attuale e che contribuisce ad arricchire l’ambientazione generale, fino ad allora rimasta confinata ad un avaro prequel/spiegone, per quanto scorrevole e indispensabile.
Solo dalla mente di Mako, infatti, apprendiamo quale sia la portata della minaccia Kaiju, oltre a ammirare ancora una volta quella macchia di colore che è la bambina, contrapposta ai colori freddi della città, grigia, e del mostro, blu scuro-azzurro.
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Quindi, talmente forte è l’estetica che sottende all’intera messinscena, che emotività, pathos, introspezione e varie eventuali, passano in secondo piano, e volentieri. In due ore, conta la potenza dell’affresco, che è pari ai dipinti o opere citate dallo stesso Del Toro.
L’apocalisse viene sventata, ma in realtà non importa, almeno a me non importa, perché non è quella la parte che verrà ricordata, bensì:
– Gipsy Danger e l’elbow-rocket, che scarica il pugno sul muso del Kaiju.
– Gipsy Danger che prende a colpi di petroliera il suddetto Kaiju.
– Mako e Raleigh che si sintonizzano nella cabina di comando di Gipsy Danger (cabina, a proposito, realmente costruita, con tutta l’interfaccia meccanica-mobile con la quale gli attori interagiscono).
– Mako bambina e il mostro gigante che la insegue, il motivo della fiaba. Uno dei motivi.
– Il suono di Gipsy Danger.
– Il combattimento marittimo.
– La comparsa del primo Kaiju, scambiato per un’isola, che porta alla mente il Richiamo Di Cthulhu.
Perché non esiste paura più grande di quella dell’ignoto, è vero, ma esistono temi universali verso i quali paghiamo il nostro debito, da esseri piccoli quali siamo, e verso i quali sognamo da sempre di elevarci, per colpirli ad armi pari.
Sempre la solita storia, varchiamo gli stretti confini dei nostri domini, trovando avversari all’altezza del compito.
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