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Ragnarok and Roll

Stavo per scrivere un articolo su come un’intelligenza artificiale sia quasi riuscita a dimostrare che la realtà in cui viviamo è una simulazione, ma poi mi sono detto… è Giugno, i ritmi si sono allentati (sì, il blog non chiude, come vedete), per cui parliamo di Ragnarok.
Ideata e prodotta da Adam Price, è una serie danese-norvegese, dove reincarnazioni delle divinità nordiche – e dei loro mortali nemici, i giganti – vivono tra i mortali, per risvegliarsi all’occorrenza, quando c’è da ristabilire l’equilibrio e salvare l’umanità.
Tipo quando siamo sull’orlo di una catastrofe ambientale. Come mi ci sono ritrovato, io, a guardarla e a farmela piacere? Non lo so. Forse perché, in senso – molto – lato, rispecchia alcune delle mie scelte narrative in fatto di supereroi.

Edda è la cittadina, affacciata su un fiordo.
Ragnarok è arrivata alla seconda stagione, su Netflix. Si tratta di stagioni brevi, da sei episodi ciascuna. E nasce come un prodotto per ragazzi. Un Beverly Hills 90210 (o un Gossip Girl), ambientato in Norvegia, dove le dinamiche dei ragazzi, studenti di liceo, si intersecano con quelle dei loro genitori – i cosiddetti adulti – e, in maniera più ampia, con quelle della città stessa, inquinata da un’industria locale, e di riflesso col mondo intero.



La parte difficile di Ragnarok è la sua caratteristica intrinseca che più preferisco: l’assenza di tutine aderenti.
Secondo un criterio di realismo applicato al genere supereroistico, in Ragnarok non si vedono costumi. Non ancora. E spero non se ne vedano mai.
Perché non si richiama a fumetti di sorta, ma alla mitologia. Anche perché queste divinità riscoperte non hanno alcuna intenzione di rivelarsi al mondo, mantenendo un basso profilo e mimetizzandosi con la società.
E se la prima stagione, la migliore, ci accompagna attraverso la presa di coscienza del protagonista, Magne (David Alexander Sjøholt) della sua natura divina (è il dio Thor), la parte difficile arriva con la seconda, col tentativo, una volta scoperte le carte (e le identità segrete dei protagonisti), di integrare la battaglia tra dei e giganti nel tessuto di una piccola cittadina come Edda, pretendendo di non alterare né il tessuto sociale, e nemmeno i ruoli dei protagonisti. Se non per il minimo indispensabile.
Sono studenti e devono rimanere tali.

Apprezzabile, oltre alla mancanza di tutine, l’accuratezza dei riferimenti mitologici, attualizzati. Secondo le fonti, non troverete – ahimé – un Thor più aderente alla tradizione di quello di Magne (Thor non era un dio particolarmente sveglio, diciamo così), così come un Loki (Laurits – Jonas Strand Gravli). E laddove, per mancanza di fondi o per precisa decisione minimalista, non si possa esagerare con una messa in scena fastosa, si sceglie di piegare la tradizione e la mitologia alla realtà, ridimensionando il potere e la magnificenza degli dei a cose di tutti i giorni. Odino è un vecchio su una sedia a rotelle a motore, per dire.



Quindi più che apprezzabile sia la raffigurazione delle divinità, integrate per scelta precisa in un tessuto sociale attuale, che la natura “progressista” di certe tematiche, anche se, come nel caso di Loki/Laurits, non s’è fatto altro che rispolverare l’ambiguità della figura mitologica tradizionale.
Un po’ stucchevoli, perché realizzate in modo superficiale, sia la questione ambientale che il discorso sul ruolo della donna.
Sono temi importanti, ma qui messi in scena con una certa sciatteria. Per fare un esempio, le gerarchie in seno alla famiglia dei giganti scosse dal legittimo tentativo di Saxa (Theresa Frostad Eggesbø) di prendere il potere all’interno di un regime patriarcale vengono puniti con… le botte. Uno si aspetta chissà che supplizio divino ispirato a chissà quale episodio mitologico, e invece abbiamo una semplice scazzottata, per altro avvenuta fuori campo.



La seconda stagione appare svogliata. Quasi puerile, nella insistita scelta di mettere in piedi una crisi d’accettazione da parte di Thor/Magne, nei tentativi, che s’avvicinano pericolosamente alle comiche, di forgiare il Mjolnir, il sacro martello di Thor (apprezzabile comunque che alla fine il magico martello sia un semplice pezzo di ferro forgiato alla buona, senza particolare ricercatezza), nella telefonatissima love story di Magne con la gigantessa Saxa, quando non nella messa in scena davvero mediocre – e faccio riferimento all’unica scena di azione, dove Thor scaglia per la prima volta il suo martello, abbruttita dal rallenty e in definitiva mal concepita, coi nemici che aspettano in auto di essere colpiti, nonostante abbiano tutto il tempo di reagire.

Solo che, di Ragnarok si tratta, la fine del mondo, il crepuscolo degli dei… E io mi ci sono affezionato, sarà perché il norvegese mi ricorda il suono di una lingua aliena, o per il clima amichevole che si respira nei fiordi… Per cui sono curioso, e anche un po’ intimorito, di vedere dove e come si andrà a concludere, se saremo così fortunati da vederne la fine. E dovrà essere un finale combattuto, per forza di cose

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