In questi giorni sto scrivendo con profitto. Una storia breve, pandemica che, se siete fortunati (o no, a seconda se le robe che scrivo vi piacciano o meno) vedrete online entro un paio di settimane.
Ecco, pensavo al testo e ai personaggi. Alla ricorrenza dei temi scrittori, dei contenuti, persino dello stile. Scrivendo in prima persona, sembra sempre la stessa voce a narrare, per quanto mi sforzi di cambiare “timbro”.
Ieri sera, come sempre accade quando sono stanco, ho preso un dvd, qualche film classico. Chiariamo, classico per ciò che riguarda me.
La scelta è (ri)caduta su Léon di Luc Besson.
Anno 1994. Spiando su IMDb, non risulta una data d’uscita italiana. Non per fare la solita polemica, eppure è un fatto strano. Léon l’ho visto a noleggio, all’epoca un vhs. I cinema della mia città facevano cagare allora come oggi. Quindi, potrei persino concludere di averlo visto a cavallo tra ’95 e ’96. Non è importante ai fini del discorso dell’articolo, ma i ricordi danno carattere. C’è chi si inventa Disfide di Barletta cinematografiche, calcando sulla mano dei ricordi.
Ero quindi fresco di un (inutile) diploma di maturità scientifica. E Nikita, sempre di Besson, del 1990, non è che mi facesse impazzire. Una donna protagonista, per di più d’aspetto severo, se capite cosa intendo, diversissima da certe bagnine in costume rosso.
Ok, sto divagando, però seguitemi lo stesso: si parla di personaggi e senso di deja vu. Ecco, in Nikita, come in Léon, c’è Jean Reno. In Nikita è Victor, detto l’eliminatore, anche se dal francese nettoyeur, il ripulitore. In Léon è Léon, suo mestiere, lo dice a Mathilda (Natalie Portman), fare le pulizie.
Stesso personaggio, stessa faccia, look se non proprio identico, simile, stesso portamento e carisma. In pratica, all’uscita di Léon si urlò allo scandalo, Besson non aveva prodotto nulla di originale, ma rimestato la stessa minestra… la sua.
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Ma non solo. Ricordo ancora strisce a fumetti satiriche, su non so quale rivista di cinema specializzata, italiana, che sostanzialmente attribuiva a Léon zero spessore di contenuti e solo sparatorie. Per non parlare delle mega-polemiche che accompagnarono il duo Reno-Portman. Lei aveva dodici anni, e Besson aveva il coraggio di mettere sullo schermo un rapporto affettivo complesso, pulito, nonostante il contorno di omicidi e violenza, e direi anche inevitabile, tra due personaggi alieni al mondo e a loro stessi, che si trovano e si vogliono bene. Talmente complesso e rischioso, questo tratteggio, che Besson fu costretto a mandare il film in sala con tagli su certe scene, per fortuna reintegrate nelle successiva edizione, che vennero percepite come “rischiose”.
in realtà, in questo film non c’è nulla di scandaloso o di perverso, se non, come sempre accade, negli occhi di chi guarda.
Ma, a ben vedere, al di là delle polemiche stupide coeve che favorirono il successo della pellicola e che l’hanno posizionata, oggi, tra i classici, miei e di molti altri che se lo godettero, la cosa che stupisce è la semplicità alla base dei protagonisti. Che è, come ben si sa, una delle regole non scritte di chi vuol fare una certa narrativa.
Con narrativa intendo la narrazione delle storie, tutte, sia scritte che filmate. Il trucco non sta nel personaggio complesso, enigmatico, riflessivo, che dopo due inquadrature o capitoli, ha già triturato le palle e procurato una ventina di colpi di sonno, ma in una serie di tratti, espressivi, fisici, soprattutto pochi, immediatamente riconoscibili.
Ecco, Victor, e poi Léon, sono esempio di personaggio riuscito. Non si sa quanto riciclabile, ma di sicuro impatto.
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Victor, quindi è Léon in nuce, un abbozzo. Sta in scena per poche inquadrature, ma fa un ingresso degno di Nureyev: scioglie un tizio in una vasca da bagno con l’acido. Poi, armato di pistola a silenziatore, fa fuori tante di quelle guardie con tale facilità che quasi ti fa credere che fare l’eliminatore sia il mestiere della vita, ché le guardie son cretine, si fanno fregare dal tipo sicuro di sé, che alza una mano per fermarle e con l’altra le ammazza tutte. A Victor va male, ma da lì è nato Léon, pulitore professionista. Che parte dallo sniper e finisce col coltello: più ci si avvicina al “cliente” più sei in gamba.
Léon è caratterizzato con pochi, decisivi tratti:
il nome è Léon (“Che nome cazzuto”, cit.)
Occhiali da sole rotondi
beve solo latte (alcuni all’epoca ipotizzarono che, come fosse una creatura aliena, si nustrisse solo di quello)
indossa berretto e cappotto (che gli sta malissimo)
i pantaloni sono troppo corti
va al cinema a guardare Gene Kelly
cura una pianta (indice di responsabilità)
non dorme mai, o dorme seduto sulla poltrona, con un occhio aperto
Questo è il Léon killer professionista, fatto e finito. Poi, dall’incontro con Mathilda, ne scopriamo anche il lato umano, le debolezze, il fatto che non sa leggere, la vulnerabilità che deriva dall’essersi aperto a un legame affettivo, fino al finale tragico.
Sopra tutto il resto, c’è la fisicità di Jean Reno. Talmente forte che, ancora oggi, uno vede Jean Reno e vede Léon.
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Oggi mi piacciono entrambi i film, Nikita e Léon, per ragioni diverse e perché c’è Reno in tutti e due. Personaggi uguali e così forti e indimenticabili.
Léon non è profondo, non si scava dentro di lui, lo si guarda, come se il PdV fosse solo e soltanto degli spettatori. Un personaggio caratterizzato dall’esterno. Ciò che di lui sappiamo si evince dall’osservazione. E non certo dalla riflessione, o dal vederlo perdersi in ragionamenti assurdi. Léon è azione, e quella stessa azione è cagione di sentimento e profondità. Difficile capire e apprezzare, sul momento. Occorrono circa vent’anni, per apprezzare un personaggio così. Vent’anni durante i quali si è stati sfiniti da personaggi profondi, logorroici e presuntuosi (loro e gli autori che ci sono dietro). Ogni riferimento a una nota serie a base di zombie è puramente casuale.
Quindi un buon personaggio è, ridotto ai minimi termini:
diversità, qualcosa che lo distingua dalla massa informe
emarginazione, che può essere effettiva o solo mentale; un tipo che sia adorkable, sopra le righe
riconoscibilità, deve possedere tratti specifici immediatamente individuabili e riconducibili a lui
semplicità, di carattere, ma anche d’atteggiamento, il che non implica superficialità
A quel punto, il personaggio è storia. Rientra a pieno diritto nelle ossessioni dell’autore. Besson lo ha individuato in un attore feticcio, come molti altri registi; gli scrittori lo ripropongono nei temi, spesso anche nella voce dei loro personaggi. E la cosa funziona.
E ci si può permettere il lusso di riproporlo. Non sempre, ma un paio di volte almeno, perché c’è la soddisfazione, e la consapevolezza, di aver creato qualcosa, o qualcuno. Qualcuno con cui fare i conti, memorabile. Qualcuno “serio”.