Prima di cominciare, considerate questo: per filmare la scena ambientata nel Mercato del Pesce di Parigi, dove il protagonista nasce, girata in realtà nel Quartiere Gotico di Barcellona, furono impiegate 2.5 tonnellate di pesce e 1 di carne. Il tanfo generato da queste fu sufficiente ad ammorbare l’aria per oltre sei miglia in ogni direzione.
L’ossessione di imprimere l’odore su pellicola e di rappresentarlo efficacemente, nella fattispecie il tentativo di immortalare il sudiciume nella pura forma, non potendo lo schermo trasmettere stimoli olfattivi, valse al regista Tom Tykwer il soprannome di “Lord of the Dirt”, il Signore dello Sporco. C’è da andarne fieri, non c’è che dire… o forse no, visto che a mente fredda sembra di essere diventati la nemesi di Omino Bianco.
In ogni caso, è una valanga di putridume viscoso, untuoso, colmo di pezzettoni nauseabondi e grigiastri non meglio identificati, di pesce marcio e di esalazioni suggerite e rappresentate, quello da cui si viene investiti nei primi minuti di Profumo: Storia di un Assassino (Perfume: The Story of a Murderer, 2006).
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Jean-Baptiste Grenouille (Ben Whishaw), il protagonista, nasce durante una giornata come tante, nel tanfo orgiastico del Mercato del Pesce di Parigi, allorché sua madre, avendo già avuto cinque aborti spontanei e sovrastata dalle doglie, si insinua veloce sotto il suo stesso bancone e, con la perizia con la quale un allevatore squarta un maiale, fa nascere suo figlio, all’apparenza morto, recidendo con la lama lurida di un coltello, lo stesso col quale fino a cinque minuti prima puliva il pesce, il cordone ombelicale del bambino appena partorito, spingendolo con un piede nel mucchietto di interiora e avanzi di pesce accumulatosi lì sotto dopo una mezza giornata di lavoro.
Il senso di raccapriccio, corroborato dalla raffigurazione più perfetta del sudiciume da mercato che abbia mai visto, è difficile da descrivere, quasi quanto assistere al parto sbrigativo e cinico. Sembra di potersi beccare la peste e l’epatite insieme semplicemente guardando.
Poi il bambino vaggisce, viene salvato per essere affidato ad un orfanotrofio, mentre la madre viene linciata dalla folla inferocita perché accusata di aver tentato di uccidere il proprio figlio.
Jean-Baptiste cresce svolgendo lavori di conciatore e annusando il mondo. Egli è dotato di un olfatto straordinario che gli consente, letteralmente, di conoscere ogni cosa, dagli oggetti inanimati agli esseri viventi, dal loro odore.
Egli commette il suo primo omicidio per errore, per non farsi scoprire mentre, come tutte le creature aliene a questo mondo, tentava, goffamente, di annusare l’essenza di una giovane fanciulla percepita al mercato, seguita e infine trovata, grazie al suo olfatto prodigioso.
L’essenza volatile di ogni profumo, specie quello della giovane donna, però, diviene ben presto il suo cruccio. Così, egli presta servizio da un maestro profumiere a Parigi prima e poi nella città di Grasse, in Provenza, per apprendere le tecniche che gli permetteranno di estrarre e distillare l’essenza degli esseri viventi miscelata in un profumo dalla fragranza sublime.
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Si è sempre discusso di come fosse un limite del mondo del cinema quello di non riuscire a stimolare l’olfatto. Da qualche parte, lessi, si era persino ipotizzato di costruire delle apparecchiature da montarsi nelle sale cinematografiche, dalle quali, a tempo debito, sarebbero scaturiti odori d’ogni genere, per una più totale immersione nella finzione scenica. Qui ci si è dovuti accontentare degli occhi. La vista quale unico senso da percuotere per evocare sconosciute fragranze, sia oscene che inebrianti.
Tratto dal romanzo del 1985 di Patrick Süskind intitolato “Il Profumo” (Das Parfum – Die Geschichte eines Mörders), questo film appare. Proprio così. Non so cosa faccia il libro e non è mia intenzione metterli a confronto. Qui si parla solo del film. E apparire, mostrarsi, è tutto ciò che il film fa. E vi riesce, purtroppo, in modo discontinuo. Così evidentemente discontinuo che sembra essere stato realizzato da mani diverse.
Sontuosa rappresentazione grafica nella prima parte, fino alla partenza di Grenouille per la cittadina di Grasse. Ozioso e noioso manierismo la seconda parte, sbrigativa e raffazzonata, comprensiva del finale. Come sia stato possibile è cosa che ignoro. Magari è solo suggestione.
L’idea che ogni cosa possieda un suo profumo e che possa esistere un essere umano in grado di distinguerne le sottili differenze aromatiche è morbosa e intrigante al tempo stesso, quasi quanto l’immediata conseguenza di quest’assunto così particolare, ovvero arrivare a uccidere pur di serbare intatta la fragranza di un solo istante, condizionata, persino, dallo stato d’animo della sua sorgente.
Così, è con vero stupore che si assiste a riprese eccelse, ad altissima definizione e arricchite da scale cromatiche vertiginose; sia che si tratti, per l’appunto, di sordidi e sporchi angoli della Parigi del XVIII secolo, sia che si indugi sui corpi eburnei delle attrici/vittime di questo maniaco ossessionato dall’idea di creare il profumo perfetto.
Jean-Baptiste Grenouille diviene volenteroso allievo del Maestro profumiere Giuseppe Baldini (Dustin Hoffman) e da lui, sotto scosse d’assestamento della precaria abitazione fluviale dell’italiano, avviene l’apprendistato del mostro ossessionato, fin da quando era in fasce, dall’idea di possedere tutti i profumi del mondo. In un laboratorio un po’ steampunk, si apprendono, spiegate con la consueta verve da un Hoffman compiaciuto dell’insolito ruolo, le tecniche della distillazione degli oli essenziali, in una gara, frettolosamente condotta, con i migliori profumieri di Parigi, nonché la storia stessa del profumo, composto di tredici note, uniche e tali da renderlo divino; fino a che Grenouille non decide di recarsi, sotto consiglio dello stesso Baldini, a Grasse, città dove egli perfeziona la sua tecnica di estrazione dell’essenza e non decide di applicarla, memore dell’odore della giovane ragazza del mercato uccisa, su giovani donne delle quali egli solo avverte l’aroma.
Tredici delitti per tredici donne, il tutto per ottenere l’essenza stessa dell’amore, capace di sedimentarsi nel cuore e nel sesso di tutti gli esseri umani che la respirano.
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Ma non tutte le note di questo film si sposano perfettamente. Per quanto l’argomento possa risultare non privo di fascino morboso [il romanzo ha ispirato “Scentless Apprentice” dei Nirvana, il video “Du riechst so gut” dei Rammstein], sostenuto come ho detto, sia dalla magistrale fotografia di Frank Griebe, sia dalla maniacale ricostruzione scenografica della Francia del XVIII secolo ad opera di Laia Colet, Philippe Turlure e Pierre-Yves Gayraud, “Profumo” non decolla mai, ma tocca, anzi, lunghi baratri di noia mortale nel vano tentativo, ad esempio, di infondere al protagonista, lo scarno e sudicio, ma comunque bravo Ben Whishaw, un’aura quasi mistico/sacrale, stessa impressione che si rafforza assistendo al delirante finale. E per quanto i primi quaranta minuti, sostenuti e impreziositi da Dustin Hoffman siano decisamente buoni, ci si perde nella restante ora e quaranta dietro la veloce collezione, i tredici omicidi, e dietro le ridicole indagini delle autorità di Grasse, girate peggio di un documentario, alla caccia di un serial killer ante-litteram, adoperando, talvolta, in ciò che è puro esempio di anacronismo e vero scempio, logiche da profiler che sarebbero poi state adottate a Quantico in ben altri contesti circa due secoli e mezzo più tardi. Insomma, parlare di “penetrare nella logica dell’assassino” sembra già di per sé folle, almeno quanto vedere gli idioti nobili dell’epoca, con tanto di merletti, cerone e parrucconi, affannarsi a sparare idiozie sulle presunte cause di tale violenza e sul potere della scomunica.
Incredibile poi che venga rivolta all’assassino, una volta catturato, la fatidica domanda: perché l’hai fatto?
Basta così.
Se devo essere sincero, “Profumo” si rivela essere un film piuttosto deludente che, nonostante la sua consistente durata, due ore e ventisette minuti, sorvola proprio su quelle parti che sarebbe stato prezioso approfondire, per privilegiare nel secondo tempo il punto di vista esterno al personaggio, quando tutto l’intreccio era innestato, fin dal primo vaggito, sulla natura dell’assassino dall’olfatto incredibile.
Punto di vista ballerino, narratore esterno, intromissioni di personaggi superflui e satira farlocca e stantia contro il misticismo religioso. Ce n’è davvero abbastanza. La vista, quell sì, ne esce appagata, ma solo per far ricordare gli artefici di tale rappresentazione. La storia è da dimenticare.
Approfondimenti:
Scheda del Film su IMDb
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