Uccidere è un bacio, ma anche l’alba di una gamba che vola addormentata in una pentola vuota di sabbia, che graffia, ride a urla, mentre fa a cazzotti col postino.
Sì, ieri ho visto Pontypool, su segnalazione di Alex. Film intelligente, che si può riassumere con la frase d’esordio. Visto che la parola è potere e problema, la soluzione probabile e immediata è quella di sottrarle significato, in modo che il cervello se ne stia quieto.
Interessantissima variazione sul tema infetti & epidemia.
Intrigante perché raccontato, pur trattandosi di un film. Talmente raccontato che l’idea originale era una sequenza audio, quella dello speaker di una radio, e una video, il diagramma della voce. E avremmo avuto un film radicale, snobbato da tutti.
Non che sia vezzeggiato. Su IMDb s’è beccato un 6.7, là dove hanno il coraggio di attribuire 8 e rotti ad altre schifezze contemporanee a base di zombie (qualcuno ha detto TWD? Io? Noooooo…).
Eppure, Orson Welles c’era riuscito, a raccontare. Altri tempi, altre suggestioni. Alla fine, pur ispirandosi all’episodio radiofonico de La Guerra dei Mondi, il film è stato girato, e arricchito da sequenze notevoli, non prive di tensione.
Ma come detto, si basa sulla bellissima idea che tocchi a una piccola stazione radio di un paese sperduto dell’Ontario, in Canada, raccontare lo scoppio di un’epidemia che tramuta gli esseri viventi in assassini cannibali.
Solita pandemia. Solito fascino immutato. Perché l’idea che la specie umana impazzisca e si autodistrugga ci fa stare a posto con la coscienza, almeno noi che il fantastico lo amiamo e non lo temiamo, come altri, stupidamente.
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Le cose che ho gradito di più di Pontypool sono due:
il Dottor Mendez, che è identico al mio medico curante. Il che mi ha fatto sprofondare in più realtà di quanta potessi desiderarne. E questo è un colpo di culo, lo ammetto.
il fatto che i protagonisti appartengano alla cosiddetta “gente comune”.
Proprio così, gente comune, come può essere quella che lavora in una radio, alle prese con l’apocalisse che entra dalle finestre.
E mentre, sempre in altri prodotti, si gioca al morality show, dando sfogo a tutto il peggio della retorica che possa essere messo su uno schermo, qui la gente è davvero gente comune, impreparata, sopraffatta, sconvolta e incredula rispetto alle notizie che giungono, in un primo momento, solo attraverso i microfoni, per poi mostrarsi in tutto la loro ferocia.
Assoluta mancanza di ragionamenti idioti, di piagnistei, e di dubbia moralità spacciata per buoni sentimenti.
Proprio così, venuti a patti con la realtà che vuole le zombie apocalypse sempre più commercializzate, per trovare esempi accettabili del genere bisogna procedere a esclusione, confidando di trovare argomenti validi al di là delle sovrastrutture di fuffa.
Qui fuffa non ce n’è. Per questo Pontypool è ottimo.
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Non c’è neanche un virus, o almeno nessuno è arrivato a individuarne uno. Un’infezione comunque esiste, e pare colpire il centro del linguaggio, producendo afasia, confusione, ripetitività di atteggiamenti e parole. E la resa è efficacissima, coi personaggi che nella stessa sequenza si bloccano e fissano il vuoto, o si perdono dietro argomenti senza più alcun senso.
La regia e la fotografia sono pulite, nessuno stacco o zoom improvviso. Scelta contraria fino all’ultimo a un dinamismo forzato. Anche in questo, Pontypool si distacca dal genere che gli è proprio.
La pandemia procede serena, nella parte di mondo, lo studio di una stazione radio, che ci è consentito osservare. Dall’esterno, giungono voci di violenze, aggressioni di massa, persino di esplosioni. Oggi l’avrebbero risolta con gli smartphone, ma qui ci sono dei vecchi cellulari che tutt’al più posseggono lo sportellino. Niente trucchetti, quindi, solo voci.
Gli infetti, quando arrivano, fanno un curioso effetto. Sembrano innocui, ancorché sporchi di sangue, fino a quando non si scatenano e, nel mentre, proferiscono frasi e parole a casaccio, sempre scollegate rispetto alla situazione in cui si trovano in quel momento. E questo li rende inquietanti.
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E infine, la parola. Il Verbo era Dio, per chi ci crede. E questo rende la parola divina, oltre che un grande dono, o capacità che contraddistigue la nostra specie.
In una sorta di Babele linguistica, l’innesco dell’infezione rende gli esseri umani incapaci di comprendersi, anzi, è il persistere dell’utilizzo del linguaggio che li porta all’autodistruzione. Cosa che, al di là della finzione narrativa, sembra essere vagamente simbolica, alludendo alla forza dei simboli, del significato; il mantra “uccidere è un bacio”, ripetuto per salvarsi è indicativo del potere che un semplice spostamento semantico induce nella nostra coscienza. Uccidere è un bacio può essere una figura retorica o un nonsense, a cui c’illudiamo di attribuire un significato, potere consueto, familiare, che ci contraddistingue.
Sono stati previsti due seguiti per Pontypool. E son già passati cinque anni, nell’attesa che il primo capitolo si diffondesse abbastanza. Non ho notizie recenti.
“Zitto o muori” è il sottotitolo italiano. Per una volta, Il Malvagio Consiglio dei Titoli Italiani non c’entra nulla, “Shut up or Die” è infatti l’originale. Le parole sono importanti.
E anche la comunicazione, fino a quando arriva il silenzio. E si comincia a respirare e sentire di nuovo.
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