La Stanza Bianca

Piccoli battiti d’ali – Il Gioco di Ruolo come terapia

Viviamo tempi strani.
In cui si dice che abbiamo vinto.
O forse no.
Forse siamo solo gente dai gusti strani, sdoganati a fatica dal cinema e dalla letteratura (che comunque, a fare i soldi si è sempre pronti, e a farseli dare da gente strana… perché no? Pecunia non olent).
Guardati ancora con sospetto dagli altri che di queste cose non si interessano.
Ecco, io appartengo a quella gente strana lì.
Quella del libro di Vanni Santoni (ho due anni più di lui, tra l’altro), quella che, se un giorno d’estate ti sedevi attorno a un tavolo con fogli, dadi, gomma e matita, anziché andare al mare, eri strano per forza.

Eri problematico.
Da attenzionare. Ché di sicuro ti mancava qualche rotella, o qualche ormone. Insomma, eri un tipo di cui non ci si vantava con gli altri.
Ora, magari non me ne sono accorto io, ma i tempi, per quanto mi riguarda, non sono cambiati.
È solo arrivata la comunicazione globale, che ha reso possibile a questa gente dagli strani gusti di incontrarsi e fare gruppo (?) come se poi fosse condicio sine qua non a una vita positiva. Come se fosse condicio sine qua non alla vittoria.
Che poi, di gente davvero strana tra la gente strana ce n’è eccome, e non è che dobbiamo piacerci tutti per forza, perché abbiamo lo stesso DNA.
Ma questa è un’altra storia.

E non è della malinconia del nerd ciò di cui voglio discutere.
Qualche giorno fa leggevo un articolo interessante, che vi invito a scorrere.
Dall’altra parte dell’oceano, come sempre, psicologi e terapisti usano D&D come mezzo di supporto psicologico, di apertura.
In breve, invitano i ragazzi che mostrano difficoltà a relazionarsi col prossimo, blocchi emotivi più o meno pesanti, o disagi psicologici di varia natura e entità a sedersi attorno a quel tavolo, “armati” di fogli, gomma, matita. A creare i loro personaggi e a imparare, giocando, a rapportarsi con gli altri.
L’idea è vincente.
E non solo l’idea.
Il metodo pare funzionare, non solo a una prima valutazione empirica, a rigor di logica, ma nella pratica.
Perché Dungeons & Dragons in particolare, per la sua stessa natura, impone cooperazione – si agisce in gruppo – e diversificazione – ognuno ha le proprie abilità particolari che devono essere usate in momenti specifici, parlandone prima col gruppo.
Oltre che attitudine (e abitudine) al confronto.

Si impara, per dirne una, a valutare un problema (che può essere un mostro da affrontare, o un rompicapo, o un imprevisto) da più angolazioni, tante quante sono le teste dei giocatori.
Insomma, calarsi nei panni di un barbaro dal carattere spumeggiante può aiutare un ragazzo impacciato a migliorare il suo modo di rapportarsi con la realtà di tutti i giorni, aiutarlo a diventare più spontaneo, a capire che ogni azione che compie ha una conseguenza.
Nel gioco, e nella realtà.

Mi ha colpito in particolare l’incipit di questo articolo:

Adam Davis, co-founder of the Dungeons & Dragons therapy group Wheelhouse Workshop, thinks kids with social issues aren’t being asked the right questions. In a dreary school counselor’s office, it can be hard to engage with “Why aren’t you doing your homework?” and “Have you tried joining clubs?” For Davis, more fruitful lines of inquiry start with “Who has the axe? Is it two-handed? What specialty of wizard to you want to be?”

Ai ragazzini con problemi di socializzazione, a scuola soprattutto, non viene posta la domanda giusta.
Anziché chiedere loro “Perché non fai i tuoi compiti?”, oppure “Hai provato a iscriverti a pallacanestro o altro?” sarebbe più giusto, utile domandare loro: “Chi ha l’ascia? È a due mani? A quale classe di prestigio appartieni?”.

Ci ho riflettuto.
Ho fatto un salto nel passato. Ero un ragazzino con problemi a socializzare?
Oggi dico di sì.
Ma erano altri tempi. E nessuno se ne fregava nulla. Erano cose che sarebbero state superate con l’età, come i reumatismi invernali con la bella stagione. Quel sedersi attorno a quel tavolo anziché andare al mare e correre dietro alle ragazze… non erano cose di cui vantarsi, ma con l’età adulta sarebbero sparite, come un parente scomodo, come una depressione passeggera.
All’epoca la negazione del problema era l’unica soluzione.
Solo che un problema non c’era. Non c’è mai stato.
Ero solo uno che non voleva essere spronato, ma capito.

Tutto qua.

Ho cercato di immaginare se, al posto di “Ma perché non esci e vai dietro alle ragazze?” mi avessero chiesto “Cosa intendi fare del tuo guerriero? Vuoi morire inseguendo una stolida vita di combattimenti o diventare Re?” le cose sarebbero stare più facili.
Sarebbe cambiato il mio destino?
Un battito d’ali d’una farfalla a New York provoca un uragano a Pechino.
Probabilmente sì.
Probabilmente la gente coi gusti strani, che non credo abbia vinto alcunché, ma che ora, solo ora viene percepita diversamente, ha un futuro un po’ meno cupo.
Stronzi (di varia natura e estrazione) permettendo.

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