La vera storia di William Campbell (di Davide Mana)
La storia, dicono, cominciò a circolare nel 1969, ma in realtà era cominciata nel gennaio del 1967.
Si diceva, a Londra, che Paul McCartney fosse morto in un incidente d’auto, schiantandosi con la sua Aston Martin.
La notizia venne smentita e la faccenda parve finire lì.
Poi, due anni dopo, eccola riemergere, forse alimentata e favorita dalle evidenti tensioni che stavano cominciando ad aprire delle crepe fra i Quattro di Liverpool.
A canonizzare l’idea fu un giornale universitario americano, con l’articolo Is Beatle Paul McCartney Dead?, scritto da un certo Tim Hardy, che raccoglieva una quantità di “indizi” che avrebbero dimostrato che Paul era morto.
In particolare, il brano Revolution 9, sull’Album Bianco, se ascoltato al contrario, conteneva la frase “turn me on, dead man”.
I fan impazzirono, e cominciarono a tempestare di lettere e telegrammi gli uffici della Apple Records.
Pensate se ci fosse stata internet.
Facebook sarebbe imploso.
Oltre ad assillare la Apple Records, i fan cominciarono a battere tutta la discografia dei Beatles alla ricerca di altri indizi, di prove, di segnali.
Come osservò uno dei biografi del quartetto, in quei giorni la gente suonava anche le etichette degli LP, in cerca di messaggi nascosti.
Della cosa si impossessarono le stazioni radiofoniche americane, che cominciarono a trasmettere servizi sulle “prove” della morte di Paul, in particolare le farneticazioni di un certo Fred LaBour, studente della Michigan University che, non si capisce bene come, si diceva “persona informata dei fatti”.
La cosa divenne così grossa che l’ufficio stampa dei Beatles dovette pubblicare una smentita ufficiale.
Che, grazie alla logica inversa che è alla base del complottismo, venne interpretata come la “dimostrazione” che le illazioni sulla morte del bassista dei Beatles erano vere.
E così cominciò a circolare la storia completa: dopo un litigio furibondo con i compagni del gruppo, McCartney lasciò infuriato gli studi di incisione. Mentre era alla guida della sua auto, McCartney uscì di strada, e rimase ucciso.
Era il 9 Novembre 1966.
I Beatles indissero un concorso per trovare il sosia di Paul. Lo vinse un certo William Campbell.
E poi la lista delle “prove”.
Certo, i messaggi a rovescio, dal “turn me on, dead man” di Revolution Nine a “I buried Paul” alla fine di Strawberry Fields Forever.
E le copertine: sulla cover (zeppa di fiori e di oggetti ed elementi “funebri”) di Sgt. Pepper uno dei personaggi del collage ha una mano sollevata proprio sopra la testa di Paul (il motivo si ripete sulla copertina di Yellow Submarine), e il gruppo include Lawrence d’Arabia (morto schiantandosi in moto), James Dean (morto in un incidente d’auto), Marilyn Monroe (morta giovane), Edgar Allan Poe (morto pure lui). L’uniforme del “defunto” è l’unica di un colore “freddo”. Sul retro della copertina Paul dà le spalle al pubblico a differenza di tutti gli altri, e sulla sua testa compare la scritta “Without You”. E nello spread centrale si vede un badge, sulla manica di Paul, con la sigla O.P.D. – “officially pronounced dead”, a detta dei sostenitori della cospirazione.
La canzone “A Day in the Life”, su Sgt. Pepper, descriverebbe, a detta di La Bour, uno schianto in auto.
E poi Abbey Road, sulla copertina del quale i quattro di Liverpool formano una “processione” che si apre con Lennon in bianco, figura ieratica e spirituale, seguito da Ringo in nero e formale, ovvero vestito da impresario funebre. Poi Paul, scalzo, senza cravatta, che non tiene il passo, vale a dire il cadavere, e a chiudere George, in abiti da lavoro, il becchino. E perché Paul, che è mancino, ha una sigaretta nella destra?
Si vede un maggiolino Volkswagen, sullo sfondo, con la targa 28IF… Paul in quella foto avrebbe avuto 28 anni SE non fosse morto.
Peccato che non sia così: McCartney aveva 27 anni all’uscita di Abbey Road, e la targa in effetti è 281F.
Ma ci fu anche quel tizio che prese la copertina di Magical Mystery Tour, la capovolse e vide che la scritta BEATLES diventava un numero, 5371438, e quando provò a chiamare una voce rispose “Ci stai andando vicino” e riattaccò.
D’altra parte non fu l’unico a provarci: due tizi a Londra fecero il numero, e ottennero in omaggio dei biglietti per un concerto.
A questo punto la cosa sfuggì di mano.
McCartney, che proprio per le tensioni all’interno del gruppo si era tenuto per un certo tempo lontano dai riflettori, fece una conferenza stampa per dimostrare di essere vivo.
Ma tutti, ovviamente, sapevano che si trattava di Campbell.
E poi venne messo in piedi uno special televisivo da un’ora, e il presentatore andò a pescare LaBour nella sua stanza del campus in Michigan, e lo intervistò riguardo all’intera faccenda.
A questo punto, Fred LaBour confessò, in preda al panico, di essersi inventato l’intera faccenda, e a quanto pare l’anchor-man gli rispose: “Beh, dobbiamo fare un’ora di televisione, ti conviene continuare.”
Del mistero si occupò anche Batman, nell’albo numero 222.
Ma se i Beatles furono in parte divertiti e in parte irritati, e l’ufficio stampa della Apple Records dovette usare delle carriole per gettar via tutte le lettere di fan trafelati, ci fu qualcuno che, alla EMI, stappò una bottiglia di spumante quando l’intera faccenda esplose su radio, giornali e televisione.
Rocco Catena, direttore alle vendite della Capitol Record, fece notare che il novembre del ’69 sarebbe stato “il più grande mese nella storia dei Beatles”.
Sgt Pepper e Magical Mystery Tour rientrarono in classifica dopo due anni dalla loro uscita.
E così ora siamo nel 2016.
Paul è morto.
John è morto.
George è morto.
Ci resta solo Ringo.
E William Campbell (che non ha poi avuto una brutta carriera, tutto considerato – Band on the Run, di “Paul McCartney & the Wings”, è uno dei migliori album di sempre).
E la faccenda della morte di Paul è ancora piuttosto popolare – tanto che Wired Italia, nel 2009, fece un servizio interpellando due scienziati forensi per dirimere il mistero.
Quando si dice frustare un cavallo morto. O un Beatle morto.
E dire che in America Wired pubblicava gli articoli di Nicholas Negroponte.
Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Ah, no, aspettate. Ancora una cosa…
Fred LaBour, nel 1971, intraprese una brillante carriera musicale come bassista (proprio come Paul) nel gruppo country cabarettistico Riders in the Sky, e col nome d’arte di Too Slim divenne una delle colonne del country swing, incassando anche un Grammy Award.
Si è laureato in Gestione delle Aree Selvagge, e conduce anche un programma radiofonico.
Fred sta bene, e vi saluta tutti.