Negli ultimi anni la fantascienza è fuga. Fuga verso un nuovo inizio, disperato e terribile. Il lato pionieristico lascia dietro di sé qualsiasi fascino romantico, qualunque speranza verso un domani radioso e confortevole, in luogo di un puro salto nell’ignoto. Caratteristica fondante di questa nuova corrente è l’ineluttabilità. Il viaggio, perché sempre il viaggio è il motivo dominante, è univoco. Da quella missione, qualunque essa sia, non si torna più indietro.
Anch’io la percepisco così. Questo è il tipo di fantascienza che prediligo. Credo fermamente che, una volta superati certi confini, che siano fisici o metafisici, una volta raggiunta una determinata e nuova consapevolezza, non sia più possibile tornare indietro. Questo è il senso e il fine ultimo, glaciale, di ogni evoluzione.
Pandorum è un film del 2009. Sembra che tutta la rete conosca già questo lavoro del regista Christian Alvart. Mancavo io soltanto. L’impressione generale che ne ho ricavato è di un prodotto onesto. Un onesto film di fantascienza non privo di momenti notevoli, cui non hanno giovato le velleità citazionistiche dell’autore.
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Fusione di generi
È sicuramente un caso, oppure la suggestione del momento che deriva dalla recente visione di Valhalla Rising, che mi porta ad associare generi, quali fantastico e fantascienza, e ambientazioni storiche diverse, insieme ad epoche distanti tra loro, ma che presentano situazioni, personaggi e implicazioni assai simili.
“Pandorum” è ambientato su una nave spaziale, un gigantesco vascello capace di ospitare una piccola popolazione di circa 60.000 persone. I passeggeri sono coloni, tra i professionisti più disparati, che, con l’ausilio di mezzi e risorse provenienti dalla Terra, sono destinati a raggiungere ed avviare la civilizzazione di Tanis, un pianeta abitabile, nonché speranza futura di tutta l’umanità, altrimenti condannata dall’esaurimento delle risorse sul pianeta madre a una lenta estinzione.
Osservando, anzi godendo dei solitari corridoi metallici della Elysium, la nave spaziale, apprendendo dei contrasti che via via sono sorti dentro di essa, in un microcosmo slegato da ogni residuo legame di origine e legalità, mi è venuto alla mente uno dei più bei racconti di Robert E. Howard, “Chiodi Rossi” (Red Nails). In quest’ultimo, una popolazione morente di una stirpe dimenticata si era barricata all’interno della propria capitale, trovando riparo da un mondo che essa credeva oramai inospitale. In “Pandorum” lo stesso microcosmo pretende, così come nel racconto, il formarsi di nuovi equilibri.
Nel racconto, Conan, insieme alla co-protagonista Valeria, è l’elemento dirompente in quel precario equilibrio tra le opposte fazioni della città. Sulla Elysium Bower (Ben Foster), pur essendo membro dell’equipaggio, è egli stesso elemento di rottura perché, a causa dell’amnesia provocatagli dall’ipersonno insolitamente lungo, è costretto a riscoprire il mondo che lo circonda, cambiato profondamente durante il suo periodo di stasi e di fatto sconosciuto, a intervenire nella nuova e inedita “società” costituitasi nella nave e a ricavarsi un ruolo e uno scopo all’interno di essa.
Bower è un pioniere. Viaggiatore e scopritore di nuovi mondi, senza muovere un passo dalla sua stessa casa.
Il Guerriero/Esploratore come elemento di cambiamento, che è allo stesso tempo causa e mezzo di tale mutazione, spesso attraverso percorsi tortuosi, costellati da brutalità e violenza.
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[Attenzione! può contenere anticipazioni]
L’Arca
Tanis è un pianeta molto lontano. Occorrono anni, forse decenni, per raggiungerlo e, una volta arrivati, altri anni di un faticoso nuovo inizio. Spettacolari sequenze panoramiche ci mostrano il sacrificio estremo dei terrestri che sono riusciti a [ri]creare l’Arca ponendo al suo interno ogni elemento biologico caratterizzante la vita sulla Terra, stipandolo nel cuore della Elysium, vera proiezione verso un futuro senza nome. I Campi Elisi, o Eliseo, un luogo di perfetta serenità, in cui dimoravano i benvoluti dagli dei.
Facile perdersi dietro divagazioni metafisiche affascinanti. Ma “Pandorum” non è solo questo, vuole essere anche azione, combattimento, presa di coscienza estrema e violenta, nonché commerciale, accompagnata da dubbiosa incertezza.
Bower esplora i bui corridoi della Elysium, vuoti per attimi interminabili. Obbligatorio ripercorrere a mente tanti altri familiari e claustrofobici corridoi di tante altre navi spaziali, la Nostromo sopra tutte le altre. Poi Bower incontra il Tenente Payton (Dennis Quaid), anch’egli disorientato e confuso. Insieme a quest’ultimo, messosi in sala comando, Bower inizia ad esplorare la nave per ricostruire gli eventi che hanno portato un cargo stellare a diventare un silenzioso mausoleo funebre alla deriva apparente nello spazio profondo.
L’astronave risulta abitata da esseri dalla forma aliena, aggressivi e violenti, che si scatenano in una caccia senza quartiere verso Bower e altri due superstiti, ridotti alla stregua di due naufraghi su un’isola allo stato di natura.
Un terzo superstite è lo strumento attraverso il quale i nostri prendono coscienza della verità; un cantastorie che, tramite graffiti che egli stesso ha tracciato, è capace di raccontare il recente passato ed un ancora più soprendente presente.
Il finale giunge inatteso e riscatta una altrimenti snervante, perché fin troppo familiare, situazione da survival horror, con i protagonisti braccati dalle creature innominabili. Finale aperto che preludeva ad una ipotizzata trilogia che forse, dato il fiasco al botteghino, non vedremo mai.
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Il Futuro
I punti deboli del film sono tutti nella parte action che raggiunge il suo apice in duelli finali vuoti e neppure ben coreografati. I costumi dei superstiti, improbabili indios cyberpunk, i richiami e le strizzatine d’occhio a soluzioni sceniche alla Mad Max, i mutanti che sembrano venuti fuori dalle grotte di “The Descent”, vestiti però come i carpenteriani “Fantasmi da Marte” o ancora i Reaver di “Serenity”, anche quest’ultimo fondantesi sul colonialismo fallimentare, fanno il resto, abbassando notevolmente la resa qualitativa. Attori, invece, sorprendentemente in parte. Soprattutto Dennis Quaid e Ben Foster che arriva a decidere di divorare insetti vivi per assicurare maggior realismo alle scene.
“Pandorum” resta un film notevole che meriterebbe senza alcun dubbio una degna, anche se difficile, espansione dell’universo che ha creato. Nessuna situazione che urla assoluta originalità, a partire dalla nave spaziale e dagli scampoli di umanità alla deriva già ampiamente affrescati da BSG, e non mi riferisco necessariamente alla serie recente; per continuare con la solita patologia psichica che annichilisce le menti e semina incertezza circa la realtà degli eventi di volta in volta presentati. Elementi noti, ma ben amalgamati. Peccato che Alvart, o chi per lui, abbia voluto mantenere aperte molte porte al gradimento globale. Molte di più di quanto fosse consigliabile. L’ibrido che ne consegue è inevitabile, come il destino della razza umana nella fantascienza, stupidamente speranzoso, ma con un grosso temporale in arrivo.
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