Guardavo un’illustrazione digitale di Faraz Shanyar, quella in copertina e, parlandone con Marina, mi dicevo che, per quanto possa risultare lontana dall’avverarsi, è comunque dannatamente plausibile.
Lontana dall’avverarsi, poi… Esattamente quanto lontana?
E se non sarà la Disney, che acconcerà guardie armate alla stregua delle attrazioni dei suoi parchi a tema, forse toccherà a qualche altra megacorporazione, soggiogarci.
Forse ci saranno barricate recanti il baffo della Nike, o il sorriso di Amazon, o sirene robotiche, sentinelle, verdi bianche e nere, di Starbucks, che scandagliano i quartieri di notte, durante il coprifuoco.
Facebook… no, facebook no. E ho una mia teoria a riguardo, ma ne parleremo un’altra volta.
Mi viene in mente Jodorowsky, quest’immagine di un vecchietto grinzoso, ma lucido, con un velo di barba ispida e gli occhi accesi, che a distanza di decenni ce l’ha ancora a morte (e chi non ce l’avrebbe?) con coloro che bocciarono il suo Dune.
Essenzialmente per ragioni di soldi, dice lui. E, dicendolo, tira fuori dalla tasca dei pantaloni qualche banconota ripiegata, chiamandola “merda” – ‘Cause of this shit! -.
È colpa dei soldi.
O meglio, dei ragionieri.
L’arte romantica non vorrebbe essere tanto legata al denaro, ma ne ha bisogno per sopravvivere, per ubriacarsi in fumosi caffè, per pagarsi le prostitute da decantare in libri scandalo su vite bruciate.
Poi sono arrivati i ragionieri. E i ragionieri, per natura, fanno quadrare i conti.
Si sono riuniti in mega-corporazioni, e hanno annichilito tutto quello che poteva essere la personalità artistica in un prodotto di intrattenimento.
Ciò che conta è che si possa vendere, che la gente voglia comprarlo. Ciò che conta sono i soldi.
La logica del blockbuster vuole l’azzeramento della personalità artistica (a tal proposito leggete le considerazioni in merito che del BB fa la mia amica Lucia).
L’artista è eccessivamente fissato con la propria personalità. È per definizione incontrollabile, genera movimenti culturali, rompe gli schemi.
E sappiamo, al contrario, che sono proprio gli schemi, la rassicurazione che da essi deriva a tranquillizzare il pubblico.
Se da un film si vogliono tirar fuori i soldi, sono gli schemi che devi fornire al pubblico, non i guizzi artistici. Ma in maniera inconsapevole, perché il pubblico ama gli schemi tanto quanto odia riconoscerli. Vuole essere preso in giro.
Allora il prodotto dell’intrattenimento viene costruito a tavolino, vengono dosati i colpi di scena, i sentimenti, i tradimenti, l’arme e gli amori.
E gli effetti speciali.
E si riempiono le sale, con grande contentezza dei ragionieri, che fanno fumare le loro calcolatrici.
Liscio, ma non bello.
Narrazione transmedianica, che non ha a che fare con gli occultisti, ma con la composizione di un puzzle narrativo e che si svolge su più media, in modo tale che lo spettatore venga vincolato a un prodotto – tipo Star Wars – attraverso tutti i media che esso utilizza: film, videogiochi, fumetti, merchandising e compagnia bella.
Il cliente viene non solo fidelizzato, ma acquisito. Quasi spinto a firmare un contratto, complice anche la forma mentis tipica del fan, che è un collezionista compulsivo, che preveda l’entrata in possesso di ogni prodotto messo in commercio sotto un determinato logo.
Se un domani, la Disney diversificasse ulteriormente i propri investimenti e, oltre a produrre una serie di spettacoli che piacciono tanto ai bambini, ma anche ai grandi, decidesse di entrare nel campo dell’energia elettrica, potrebbe accadere che la vostra bolletta, lassù in cima, nell’angolino del foglio illustrativo, rechi le orecchie di topo.
L’avete firmato voi il contratto. Faceva parte di un pacchetto, oltre a sei mesi di energia pulita, vi offrivano anche un anno di cinema: gratis.
Irresistibile.
A quel punto non solo la vostra fantasia, ma anche la vostra casa e tutto ciò che essa contiene, diciamo una parte importante della vostra vita, computer, TV, il frigo!, dipenderebbe da Topolino.
E, senza che ve ne accorgiate, sarete piombati nella distopia. Uno scenario familiare. E sapete perché?
Perché, quando ancora l’arte non era gestita dai ragionieri, qualche scrittore aveva ipotizzato che potesse accadere, con gran scorno delle istituzioni a lui coeve, che si erano sentite prese di mira. “Queste fandonie non potranno mai accadere”. Si diceva così.
Io so solo che mio padre, già negli anni Novanta, indossava una cravatta con sopra intessuto Topolino. Una cravatta molto carina, elegante, a mio modo di vedere.
Gliel’avevo regalata io.
Una personalità eccentrica, si diceva all’epoca, mio padre. Che di mestiere faceva l’insegnante, e che andava in giro con la cravatta di Topolino.
Adesso io penso, una cravatta? Cosa c’entrano le cravatte con Topolino?
E poi guardo il lavoro di Faraz Shanyar. E sorrido.