Underground

Norman

“È vero, io grido e sbraito con loro e per loro, ma in che altro modo potrei farmi ascoltare? Io non sono mica un deputato. Io sono solo un cittadino che vede tante cose sbagliate e vorrebbe cambiarle. È la bellezza di questo paese.”
“Lei ha idee estremiste. E le idee estremiste incitano il popolo a misure estreme.”
“Non posso essere responsabile di ogni svitato che capisce fischi per fiaschi. Guardate, io ammetto che a volte sono costretto a usare argomenti forti per sostenere le mie opinioni, ma su, via, andiamo… è giocoforza. E poi lo sanno tutti cosa sto facendo.”
“Cosa sta facendo?”
“Dissento. Sono il portavoce del dissenso […].”

Una cena quasi perfetta, anno 1995, di Stacy Title.
Norman Arbuthnot (Ron Perlman) è un presentatore televisivo, uno che non le manda a dire, che non ha paura di parlare di argomenti scomodi, per quanto scomodi possano apparire: uno che fa commenti razzisti, un uomo che ascolta la gente, un uomo pieno di buon senso.
Inutile girarci intorno. Più lo si guarda, e più ci si rende conto che il film, e Norman, sono il ritratto perfetto della nostra società.
In cui ci si odia tutti, per qualunque ragione. Ci si odia con ipocrisia, senza agire, per lo più, ma solo tramite “feroci” critiche, espresse a parole. Per lo più sul web.
Una società in cui il regime alimentare diviene religione talebana, in cui gli esseri umani valgono meno degli agnellini, in cui nessuno – cordialmente – si sopporta, e in cui argomenti che pure appaiono sensati, positivi, vengono manipolati per il proprio esclusivo interesse e trasformati dal fanatismo di questi o quei seguaci. Ci sono sempre i seguaci, non mancano mai.

“Che cos’è che vuole, Norman? Il potere? Diventare… presidente?”
“Luke, io ce l’ho già il potere. Essere presidente? Non si ha nessun potere. Bisogna rispondere al Congresso, agli interessi speciali, alla Corte…”
“Al popolo.”
“Sì, a un livello più basso anche al popolo. Naah… io ho il potere. UNA VOCE UN VOTO.”
“Ma i suoi seguaci odiano chi non è d’accordo con lei e le sue opinioni.”
“I seguaci di Nelson Mandela hanno ucciso. I seguaci di Gandhi hanno ucciso.”
“Lei si paragona a Mandela e a Gandhi?”

Insieme alla comoda, comodissima dichiarazione di irresponsabilità. Che è tanto cara alla logica – chiamiamola così – attuale.
Nessuno è responsabile di nulla. “Ho fatto quello che sentivo di voler fare”, non si dice così? L’espressione pura e istintiva del proprio sé, senza alcuna possibilità di essere condizionati. Come se la libertà assoluta fosse valore altrettanto assoluto e infallibile.
Irresponsabilità rispetto a a quello che scriviamo, filmiamo, diciamo. Facciamo.
Tanto, gli altri, fanno pure loro sempre quello che vogliono fare, no? Non è così?

“Paulie ha detto che ho dei seguaci, ma come se poi io avessi un qualche controllo su quello che le persone combinano. Tanto fanno quello che vogliono fare.”
“Come odiare?”
“Certo… è vero che c’è gente pericolosa, ma si trova sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra. Quello che io dico è che più questi estremi diventano estremi e più la società diventa moderata, perché quando li si allontana tra di loro ci si ritrova con una società che è molto ben ancorata nel mezzo, che è quello che noi vogliamo. Una società dove… tutti possano vivere, tutte le razze, tutte le religioni, tutte le opinioni, forgiate insieme. Sentite… in ogni società piccola o grande che sia ci saranno sempre i dissenzienti. […]”

Individualismo mascherato da buon senso. In ogni settore.
Ragionare come individuo e non come specie. Che poi è, a mio modesto avviso, quella cosa che ci sta fottendo tutti. E in senso assoluto, perché ci sta fottendo mentre siamo convinti di fare la cosa giusta.

“Allora, come si fa a ottenere qualcosa di buono per tutti?”
“Amico mio, sarebbe bello poter rispondere a questa domanda. So solo che bisogna fare del nostro meglio, cercando di essere le persone migliori che si può, altrimenti di cosa vuoi preoccuparti? Tutto il resto trasforma il mondo in puro letame.”
[…]

Norman è in ognuno di noi. Usiamo argomenti estremi per vincere le discussioni, poco importa che abbiamo o meno ragione, quel che conta è vicere. Perché odiamo il dissenso, ma siamo al contempo i portavoci del nostro dissenso, l’unico che abbia valore rispetto… a noi stessi.
Abbiamo imparato a manipolare gli argomenti, a assecondare il politicamente corretto, dicendo ciò che conviene dire in quel momento, non perché ci interessa davvero, ma unicamente per ottenere consenso aggressivo, che non ammette repliche. Un consenso da social network.
Sì, nel 1995 i social network non esistevano. Ma siamo sicuri che non siano stati previsti in quelle poche parole citate?

Alla fine siamo tutti un po’ Norman, non trovate?

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