Ormai è ufficiale. Sono stanco di leggere. Sì, stanco è decisamente la parola giusta. La parte Book del nostro blog, lungi dall’essere solo un’appendice purulenta che finirebbe con l’ammazzarci, si è tramutata in mare, un bel mare calmo e pulito – come suggerito anche dalla grafica -, tipo quello che sta intorno a Favignana, dove io posso pasturare in pace.
Mi perdonino, o mi ignorino, i pescatori se mi sono appropriato di uno dei loro sostantivi preferiti: la pastùra.

Cos’è la pastura? E’ un nauseabondo insieme di esche, sangue, tranci di pesce, teste, alquanto puzzolente che viene gettato in mare a cucchiaiate per attirare altri pesci ca**oni che finiranno con l’abboccare all’amo. Ecco, potete averne un’idea più precisa se andate a guardare o riguardare (per la miliardesima volta) Lo Squalo (Jaws, 1975) di S. Spielberg, dove, tra reminiscenze hemingwayane da Il Vecchio e il Mare, il capo Brody (Roy Scheider) inizia a pasturare e per poco il buon vecchio “Bruce” non gli stacca via un braccio…
Io pastùro sulla letteratura e la pastura sono le mie idee su di essa e i miei scritti e i miei articoli, soprattutto. No, non voglio prendere voi lettori col mio amo ca**one… è, piuttosto, un’associazione mentale, quella tra la mia roba e la pastura, che mi è venuta quasi spontaneamente. Forse perché faccio a botte coi generi letterari, forse perché le mie storie sono difficilmente inquadrabili, forse perché mi pavoneggio di saper scrivere pur non avendovi mai fatto leggere alcunché di mio, sta di fatto che mi viene in mente quell’ammasso di putridume rossastro e mefitico, quando penso a ciò che è per me la letteratura. Certamente, sono uno che sa farsi pubblicità.
E’ che mi piace disquisire, argomentare, spesso sul nulla, ovvero cazzeggiare. Perché sono uno scrittore? Perché scrivo. Tanto basta. Cosa scrivo, come e perché, è un discorso a parte. Uno scrittore scrive, è questo quello che fa. Ma lo scrittore, furbastro, sa di esserlo ancora prima di aver scritto qualcosa. Io so già di essere uno scrittore. Anche piuttosto bravo. Innovativo, sanguigno, ferocemente ironico, vietato ai minori, sporcaccione, amante della vita e del sesso, ma anche depresso e malinconico. Lo so già, c’è poco da fare e a voi potenziali lettori (non siete ancora lettori perché non avete ancora letto niente del sottoscritto, giusto?), a voi potenziali lettori io chiedo fede, non fiducia. Fede nelle mie capacità. Sul fatto che io sia uno scrittore mi dovete credere sulla parola. Così come i potenziali lettori di allora credevano a Miller (Henry, non Arthur) quando riempiva loro la testa con le sue manie di grandezza. Miller (sempre Henry) non ha scritto nulla (di decente, almeno) fino oltre i quarant’anni, ma è sempre stato uno scrittore. Nel frattempo se l’è goduta. E io? Sì, devo ammettere che me la sto godendo pure io. Abbiate pazienza quindi. Il libro è qui, bell’e pronto, ma ancora non me la sento di mostrarvelo. Ricordatevi il discorso sulla fede e tutto andrà – non so dirvi quando – magicamente al suo posto, nella sua giusta collocazione. Pur detestando, io, i generi e le categorie. Uffa, un giorno di questi dovrò decidermi sul serio e mettermi d’impegno, bibliografia ricchissima alla mano per darmi delle arie, per spiegarvi cosa sono i generi letterari e perché li odio tanto.
Quando ero uno studente, prima dell’allòro, in effetti non tanto tempo fa, ma sembrano passati secoli, alcuni docenti erano soliti distinguere la LETTERATURA, quella sacra, quella che ti eleva, che ti è maestra, dalla letteratura di genere, quella fatta in serie, quella fatta a immagine e somiglianza di quella sacra, ma che è, pur sempre, una squallida imitazione, una parvenza di letteratura.
A distanza di anni, devo ammettere che è ancora così e certamente tutto il discorso sulle etichette e i generi letterari non aiuta, così come non aiuta aver dato ai lettori tutto questo potere decisionale in merito. Prima di mettervi a starnazzare, lasciatemi spiegare. C’è scrittore e scrittore. C’è quello che “muore” (di fame) quando scrive e c’è quello che scrive, come Wilbur Smith o Stephen King, per comprarsi l’isola tropicale o tutto il Maine. C’è lo scrittore per il quale il libro incarna la vita stessa e quello che si diverte a raccontare l’ennesima storiella di elfi, nani e guerrieri che combattono contro Signori del Male o delle Tenebre che più ridicoli non si può. Io ne ho letti davvero parecchi libri di Wilbur Smith. Mi sono piaciuti e so esattamente cosa aspettarmi da lui: l’AVVENTURA. Tesori nascosti, forti passioni, vendetta, tradimenti e scorci d’Africa che non si trovano neanche sulle guide turistiche e, ultimamente, anche tanto sesso… sta maturando con l’età, ehehehe… ma, oggettivamente, a parte le differenze d’ambientazione, sembra di leggere sempre la stessa storia da almeno una trentina di libri a questa parte, ma è sempre e comunque avvincente. Al contrario, il libro dello scrittore che fa LETTERATURA ti forma, ti scuote, ti fa incazzare, ti resta dentro come un macigno poggiato sullo stomaco, ti fa stare male e ce n’è uno su un milione così; e il fatto che non me ne venga in mente nessuno da citare in questa sede è indicativo di quanto poca letteratura ci sia in giro al giorno d’oggi.
E ora veniamo al lettore, controparte e fondamento dello scrivere che, senza di esso, non avrebbe senso.
Da più parti ho sentito dire e ho letto che ormai, grazie al potente strumento che è internet, il lettore è più sveglio ed esigente, che è difficile farlo fesso e che, in buona misura, condiziona la pubblicazione di un libro. Vogliamo dire che sia così?
Non so. Il lettore, come la letteratura di genere, è immagine e somiglianza di un critico letterario, ovvero un critico di serie B, più puro, se vogliamo, con meno architetture teorico-letterarie a offuscargli irrimediabilmente il cervello, ma sempre di serie B. Nel senso che quasi mai il lettore, critico improvvisato, sa ciò di cui sta parlando. E’ vero, può essere più o meno colto, ma non avrà mai il quadro completo della situazione, ragion per cui può usare un unico strumento: il gusto. Che è lo strumento che appartiene a tutti e che fa, sul serio, la vita o la morte di qualsiasi creazione artistica.
Io stesso sono un lettore, uno spettatore, un critico di serie B. Lo sono quando leggo e, soprattutto, quando guardo e critico i film e le serie televisive. Io del cinema, e di tutto il lavoro che c’è dietro non ne capisco nulla, sinceramente. Posso solo esercitare il mio gusto personale e dire se il film di Solomon Kane mi fa schifo oppure no e se la storia è avvincente oppure no. E finisce lì… non posso, né mi azzarderei mai a sentenziare sulla fotografia, o sull’impiego fruttuoso dei filtri e della luce, perché non ho la minima esperienza sull’argomento.
Tornando alla letteratura, l’ossessione del lettore con poteri da critico letterario improvvisato è riconoscere, anzi esigere di riconoscere, immediatamente, il prodotto-libro con cui ha a che fare, come se stesse comprando un qualunque alimento con etichetta D.O.P.
Ma quel tipo di letteratura non è letteratura, ma industria della carta stampata.
Il vero paradosso, alla fine, è che sono proprio i lettori esigenti ad aver causato l’inaridimento e gli automatismi letterari che tanto detestano. Proprio questa folle corsa al regolamento, alla letteratura di genere, facilmente inquadrabile, che deve restare tale, ma essere contemporaneamente originale per non deluderli, ha causato la massiccia introduzione dell’industrializzazione nel processo creativo spontaneo e autonomo che è stato finora la letteratura.
A questo punto, guardandola dal punto di vista delle case editrici, perché dovrei arrischiarmi a pubblicare qualcosa di davvero innovativo se il pubblico pretende invece qualcosa di riconoscibile e immediato? Ecco il perché voi, cari lettori, sarete sempre costretti a beccarvi elfi, nani e Signori delle Tenebre Idioti e a starvene anche zitti, nel frattempo! Perché siete stati voi – o quanto meno la maggioranza di voi – a volerlo.
Continuate a usare il gusto, mi raccomando, perché è la vostra unica arma contro gente come me, che se frega, ma non fate di questo il coltello che vi trafiggerà.
La letteratura soffre le imposizioni perché è nata libera e non basta certo un’accozzaglia di gente che sbaruffa dalla mattina alla sera su regole astruse a cambiare le cose o, peggio ancora, a imprigionarla. Al massimo, continuando così, si ottiene solo di svilirla, di umiliarla. Ma la libertà, quella no, non gliela potete togliere…