Ancora una volta, qualcuno giunge in città. Arriva da lontano e porta con sé frammenti di horror.
Di quell’horror atipico – ma in verità classicissimo – che è Hardware.
Indossa un cappellaccio, è in ombra, somiglia, se ci fate caso, al regista.
Richard Stanley è una personalità atipica, come questo horror, difficile, riottosa. A ventitré anni circa se ne andava in Afghanistan a filmare il ritiro delle truppe Sovietiche e l’ascesa del regime talebano.
L’anno successivo tornava a Londra e convinceva Iggy Pop, Lemmy e Carl McCoy a firmare dei camei nel suo film, frettolosamente liquidato (e quando mai la critica coeva non è frettolosa) dalla critica del tempo come un rip-off di Terminator.
Perché c’era un robot assassino.
E c’era una damsel in distress, la donna in pericolo.
Solo che Stacey Travis, la Jill del film, è l’antitesi di Sarah Connor (quella del 1984) non porta in grembo la salvezza del genere umano, ma (in un certo senso) la sua stessa fine; è anima di un’epoca proiettata in un futuro distopico, tra le altre cose, è quella carne bramata da tutti, soprattutto dal robot.
E il cyborg stesso è una macchina di morte, creata, ma si potrebbe dire generata, dato che ha facoltà di autoripararsi cambiando la propria forma alla bisogna, da altri uomini per eliminare gli scarti di una società problematica e decadente.
Carl McCoy è lo straniero in ombra che arriva in città, ha ripescato un robot a pezzi in un territorio desertico contaminato da radiazioni, e l’ha portato a vendere, incocciando in Dylan McDermott (Moses Baxter), avventuriero dalla scarsa fortuna, ma innamoratissimo di Jill, alla quale quest’ultimo decide di portare in regalo proprio quel mucchio di ferraglia cibernetica che lei, artista, saprà di certo integrare in una nuova, splendida forma.
Stanley gioca con le citazioni, attribuisce una frase biblica, quel no flesh will be spared (Marco 13) a un robot senz’anima, che ha lo stesso nome di uno degli evangelisti, Mark 13, progettato per distruggere proprio quella carne, e la modifica un po’ alla bisogna, la vera citazione biblica è there should no flesh be saved, Marco 13:20. È la classica lente deformante, attraverso la quale ci è mostrato l’orrore di Hardware.
Un horror che esplode in una ipercromia rossa, da colpo di calore, che fa vibrare l’aria.
Horror atipico nel setting, futuristico/cibernetico: cyberpunk. Ma classico nell’evoluzione.
Stabilito il teatro, un futuro inquinato, con la schiuma abbondante che copre i fiumi, la pioggia acida che consuma la pelle, la radioattività che rende sterili o regala il cancro;
stabilito il mezzo, un cranio metallico, simbolo di morte fredda;
non resta che eleggere la nemesi, il contraltare, soprattutto simbolico, che deve indurre lo scontro manicheo liberatorio: Jill.
Jill che, dicevamo, non è una damigella bisognosa d’aiuto. Jill è la forgia della vita, ancora, nonostante intorno a lei il mondo si consumi piano.
È quella pulsione testarda verso la vita che è propria della spinta evolutiva stessa.
È desiderata, a distanza, dal vicino di casa feticista, che gronda sudore untuoso e saliva mentre la spia e la possiede; dal suo uomo, nonostante giochi la sua vita nel deserto nella speranza di raccogliere qualche tesoro che possa permettergli di fare il colpaccio; e dal Mark 13, che individua in lei il fine ultimo della sua programmazione.
Jill crea opere d’arte e, naturalmente, può generare figli propri.
Genera a colpi di martello e saldatore la sua possibile fine, il suo nemico, la sua morte probabile, innestando la testa inanimata del Mark 13 (che può trarre l’energia necessaria al proprio sostentamento da ogni cosa) in una creazione artistica su commissione.
Siamo di fronte a una rilettura originale del mito del Golem, piccolo nucleo d’orrore classico, rivisitato e contaminato dal cyberpunk, con la creatura che si ribella al creatore non perché già ammorbato dalla sua esistenza misera (“Niente è peggiore di avere una vita che non è una vita!”, avrebbe detto Leon Kowalski per bocca di Brion James in Blade Runner), ma perché ben cosciente del fine ultimo della propria: la morte di ogni creatura vivente.
Jill plasma il metallo, è carne pulsante che piega l’inanimato alla propria volontà, inanimato che si anima e pretende, serpente che si morde la coda, quella medesima carne.