Mi meraviglio di come, oggi, sia possibile una serie come Mr. Robot.
Diciamo oggi, mentre siamo tartassati dal discutibile diritto alla mediocrità e da una tecnologia accessibile, a dire di Steve Jobs, a chiunque col minimo sforzo.
Entrambe hanno di fatto azzerato la responsabilità, o l’uso responsabile, dietro la scusa del “non lo sapevo, mi sono limitato a cliccare su un’icona”.
Scusa ben presto sfruttata anche dalle aziende che, con quel clic inconsapevole, ti risucchiano il credito, attribuendoti fantomatiche spese extra.
A ognuno il suo.
Un perenne concorso a delinquere, la società attuale.
Ma dicevo del miracolo, in un’epoca in cui l’intrattenimento è, al massimo, inteso come il nuovo cinecomic che azzera la figura dell’autore (sceneggiatore o regista) in luogo dello sdoganamento del marchio.
Marvel.
DC.
Quant’altro.
Sticazzi.
Persino in politica, dove Waldo di Black Mirror ha profetizzato l’ascesa di un comico a Capo del Governo del Mondo…
E nella narrativa è la stessa cosa. Il marchio, la serie di copertine simili della nuova pentalogia, che variano di sfumature di colore, ma che narrano la medesima avventura dell’adolescente inconsapevole che porta in sé il destino di quello stesso mondo.
Un mondo di fantasia. Ché solo con la fantasia, si può evadere da questa prigione.
A pensarci, persino la Bibbia ha una trama identica.
E così Mr. Robot non fa altro che riprendere la stessa storia, sempre quella, del destino del mondo nelle mani di pochi. Nella fattispecie lo pone nelle dita di Elliot Alderson (Rami Malek) che, con le sue facoltà programmatorie, o meglio abilità informatiche, dispone di superpoteri, rispetto ai miliardi di utenti capaci solo di cliccare su una cazzo di icona e fieri di limitare a questo il loro livello di interazione con le macchine, anche loro, da sempre, viste come robot ribelli e pericolosi, stile Terminator.
Eppure, Mr. Robot è il prodotto, la voce narrante della società attuale, dove il protagonista non può che essere pazzo, rispetto alla maggioranza. Perché solo un pazzo coi superpoteri, scarsamente interessato alla propria vita, slegato dagli interessi terreni (prima di tutto il sesso), può attentare alla distruzione del nostro complicatissimo (solo sulla carta) e strutturatissimo sistema esistenziale. L’unico possibile. A detta loro.
E loro sono i cattivi.
Altro fattore deflagrante, Mr. Robot è filtrato attraverso la psiche di Elliot. Che, come detto, è pazzo.
Come dite? Ho fatto la stessa cosa, tre anni fa, in uno dei miei ebook? Sì, è vero.
Ho filtrato la narrazione attraverso gli occhi di un pazzo.
Questo vuol dire che ci sono autori che, riguardo certa narrativa, la pensano esattamente come me.
Diamo uno sguardo più ampio. Una serie che si pone come obiettivo la distruzione della attuale società, dominata dall’alta finanza, deve necessariamente essere permeata in essa. Deve parlare il linguaggio attuale, pur disprezzandolo, deve riproporre, inquadratura dopo inquadratura, il disagio della cultura pop, dei registi contemporanei, interpreti di quella stessa realtà, deve, allo stesso tempo, regalare un’ottica diversa, originale, di reinterpretazione di quella stessa realtà, facendone un amalgama.
Struttura narrativa, passaggi, stacchi, punti di vista. Mr. Robot, da parte di un narratore, è un parco giochi esaltante.
A cominciare dai titoli di testa, kubrickiani, dalle carrellate solenni, dai dettagli di ciascun protagonista, che sono ulteriori richiami, forse vero e proprio simbolismo (gli occhiali a cuoricino di Darlene, che riecheggiano il nome di Lolita, per citarne solo uno tra mille).
Mr. Robot nasce dalla crisi economica, e forse, soprattutto, dall’impunità che da essa ne è derivata.
Dalla catastrofe ENRON, la cui E inclinata è diventata il simbolo della E-Corp, la megacorporazione malvagia di questa serie.
È palese che il denaro e le alleanze rendano taluni figuri intoccabili.
Com’è altrettanto palese che l’uomo comune, piccola e insignificante tessera di questo puzzle, sia usato per mantenere lo schema. A ogni costo.
Lo sappiamo tutti.
Fa tutto parte del piano.
Non possiamo uscire dallo schema creato da loro, perché altrimenti veniamo etichettati come disadattati, screditati nei nostri talenti, guardati con spregio dalla maggioranza e ignorati dai piani alti.
Viviamo in una distopia, già da qualche decennio, ormai.
E ce ne rendiamo conto a sprazzi, come gli alcolisti, nei momenti di lucidità, salvo poi precipitare, ancora una volta, nel torpore della nostra impotenza sociale.
E tutto questo può essere cambiato solo da un pazzo, coi superpoteri.
Solo che questo non è un cinecomic. Ché Mr. Robot ha aspirazioni altre. E alte.
Mr. Robot è il germe della ribellione.
È intrattenimento.
È contrappasso.
Esattamente come Tyler Durden, che rivendeva ai ricchi ciccioni il sapone fatto coi loro culi grassi, Mr. Robot ci restituisce la nostra psicosi, il nostro disagio, la nostra paranoia, che è solo nostra, perché l’abbiamo creata noi e in essa ci viviamo, lasciandoci schiacciare da individui nefasti, essendo ormai troppo dipendenti, come oche in batteria, dalla droga che ci danno da consumare e sviati nel capire quali siano i veri obiettivi da colpire e da abbattere.
Mr. Robot ci restituisce tutto questo e ci intrattiene, facendo di noi stessi dei grossi coglioni. Ridendoci in faccia, e facendolo con stile, inquadratura dopo inquadratura.
Narrazione sopraffina.
Che fa sicuramente un po’ paura.
E che non sarà capita.
Lo adoro.
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Bonus, Angela Moss (Portia Doubleday) canta Everybody wants to rule the World.