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MISS VIOLENCE

ATTENZIONE, PRESENTI ALCUNI SPOILER!

Secondo lungometraggio del regista greco Alexandros Avranas, Miss Violence, vince il leone d’Argento per la regia e la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile (lo confermo: un agghiacciante Themis Panou). Questo avviene nel 2013, da lì la pellicola è praticamente irrecuperabile. Forse sottotitolata in inglese, birmano, bengalese o altre lingue tranne la nostra. La cerco come una matta, dopodiché ci rinuncio e mi dico, prima o poi la troverò.

miss_violence_2013_1E infatti, un pomeriggio di questa torrida estate, torno a cercare il suddetto film e, diamine, lo trovo perfino doppiato. Lo guardo emozionata per la celebre scena iniziale, quell’incipit che dà il via alla narrazione: la piccola Angeliki, durante la festa del suo undicesimo compleanno, si getta dal balcone e muore. Una scena memorabile, che trasuda fin dall’inizio una rigidità familiare. Il sorriso della bambina, nell’attimo prima di buttarsi, è un messaggio allo spettatore che sta per inoltrarsi in una delle vicende più atroci che abbia mai visto. 

Avranas sostiene che il suo film sia ispirato a fatti realmente accaduti. E ciò non stupisce. L’aberrazione umana non è affatto difficile da ritenere possibile. Finisco il film, quasi attonita, e mi rendo conto di quanto sia veritiero.

La profonda crisi economica della Grecia durante il governo Samaras, porta le persone a vivere i propri problemi come unici, non c’è vera solidarietà verso il prossimo. In questo modo il regista dipinge un paese disilluso, apatico, stanco. Sottomesso alla carestia lavorativa, alla glaciale burocrazia, all’assistenza sociale inesistente o di facciata, che punta il dito verso un nucleo familiare palesemente inadeguato, senza poi agire per il meglio. È chiaro che il periodo storico è importante per Avranas, che non si limita al contesto attuale, ma va a ritroso, poiché questa storia familiare è degenerata da decenni. Lo si intuisce subito, nel già citato incipit. Quella ragazzina che sorride serena prima di suicidarsi ci destabilizza e ci fa temere le peggiori ipotesi. Dietro di lei la sua famiglia: Eleni (madre), Myrto (zia), Alkmini (sorellina) padre-nonno e madre-nonna, in fila nell’attesa di farsi fotografare da Philippos, il fratellino, le danno le spalle. Ed è importante questa inquadratura: è forse la bambina, vista da un’altra prospettiva, a dare le spalle a loro?

Angeliki muore e ci troviamo alla stazione di polizia, dove il nonno e Eleni, la madre della bambina, ne denunciano la morte. Prima situazione di degrado pubblico, ove la freddezza pragmatica colpisce duro. La crisi ha distrutto l’empatia, c’è solo da andare avanti, fare il proprio dovere e null’altro.

Ma è la stessa famiglia a vivere in modo innaturale la perdita di Angeliki, lo sostiene un’assistente sociale a un certo punto: “Quello che mi sorprende è che qui non sia accaduto nulla.” “Ho fatto di tutto per riuscirci.” Risponde il padre di Eleni. Ed è chiaro che il sistema famigliare perpetuato da questo padre-nonno è rinchiuso in quella casa così ordinata e allo stesso tempo priva di vita.

È tutto morto lì dentro, tra le porte chiuse o addirittura estratte, tra le posture artificiali sul divano o a tavola. Tra le regole indegne imposte da questo patriarca, come contare gli alberi di un quadro o imporre a Alkmini di schiaffeggiare Philippos: quest’ultima sequenza è l’unico momento nel quale la telecamera gira intorno ai due bambini, accentuando la nausea già presente. Per aver mostrato atteggiamenti aggressivi a scuola, secondo la maestra, il bambino viene così punito, con la malcelata accusa di aver creato un piccolo sospetto sulla reale armonia della famigliola. Devono tutti comportarsi bene, perché il patriarca abbia ciò che desidera. E quello che desidera lo si scopre man mano, accompagnando lo spettatore dall’iniziale confusione di ruoli (è il padre? È il nonno? Di chi sono davvero i figli di Eleni), fino alla chiarificazione totale di un orrore indicibile. I mostri stanno ovunque, lo sappiamo bene ormai, tra le mura domestiche e naturalmente fuori. Perché i mostri sanno come trovarsi e sanno anche come passarla liscia.

Signora Violenza è un titolo esemplare, distrugge ogni specificità per dare spazio all’assoluto. Questa è solo una storia, possono essercene tante altre simili.

Il finale inizialmente mi ha perplesso, non ho compreso subito cosa volesse dire la madre-nonna con: Eleni, chiudi la porta a chiave”. Forse lo sguardo di Eleni, mentre si volta e obbedisce al pacato comando, è più che sufficiente per trovare il significato di quella chiave che gira, lasciandoci fuori, definitivamente.

Non c’è redenzione, mi dispiace Eleni. 

Miss Violence ricorda prepotentemente Dogtooth, il capolavoro di Yorgos Lanthimos del 2009. Anch’esso un film greco, che racconta di una famiglia soggiogata da un padre padrone. In Dogtooth si parla un’altra lingua, e non è un modo di dire. Gli schemi sono diversi, diverso è lo stato sociale. Ma l’orrore accomuna entrambe le pellicole.

La perversione raccapricciante travestita da buone maniere annienta più di qualsiasi scena cruenta. E sappiate che in Miss Violence di scene esplicative se ne vedono poche; se non una scena in particolare, tutto il resto è suggerito, dietro le porte chiuse.

Regia fredda e misurata, ricorda molto quella di Haneke. Non vi è alcuna spettacolarizzazione della violenza, ma la sua narrazione asciutta, lineare, più vicina al Festen del Dogma 95, penetra dentro lo spettatore per restarci. L’esperienza che vuole donarci Alexandros Avranas è riflessiva, dopo lo sdegno.

Accoglietela, se riuscite, per l’importanza che detiene. 

Vi consiglio la recensione di Giuseppe su IL BUIO IN SALA.

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