Cinema

Men, di Alex Garland

L’aspetto che più ho gradito di Men di Alex Garland è che non è banale.
Viviamo in uno stato di banalità elevata che impedisce il pensiero produttivo, dovreste saperlo. Ci propinano film tutti uguali, girati alla stessa maniera, storie sempre uguali, dopo averci sapientemente elargito gli strumenti perché ci illudessimo di possederne gli schemi.

Io con Alex Garland ho un problema, perché, fino adesso, avevo gradito solo una delle cose che ha diretto: e non è Ex-Machina.

Men è la seconda. E credo resterà tra i miei film del cuore.
C’è più di un motivo per cui preferisco Men ad altri film “horror” che sono stati osannati negli ultimi due o tre anni e che, al contrario, mi hanno lasciato piuttosto indifferente.
Al di là del simbolismo di cui Men è pregno, che esiste ed ha origini antiche, e che permette di attribuire, visti anche i trascorsi del regista, alla storia narrata una componente se non realistica, quantomeno verosimile, se si resta nel campo della narrativa fantastica, Men è una storia di dolore.
Sul dolore.

C’è una scena, in Men. Lunga, insistita, a suo modo liberatoria. Harper che passeggia nella campagna, s’imbatte in una galleria ferroviaria abbandonata, che genera un’eco.

Sulla faticosa accettazione che il dolore impone.
Perché il dolore è imposizione. Specie se inflitto da altri.

La perdita di un genitore. Di un figlio. Di un marito. Una violenza subita.
Il dolore assume molte forme, travestimenti. Ma è uno solo. Ti divora dall’interno, erode la mente. Ti cambia.

Men è affidato – quasi per intero – a due attori, Jessie Buckley e Rory Kinnear. Rispettivamente Harper e Geoffrey (ma in realtà legione).
Harper stava per divorziare, un brutto divorzio, quando James (Paapa Essiedu), suo marito, decide di distruggerla, distruggendo poi se stesso.

Harper va in campagna, la campagna inglese, dove le abitazioni possono avere anche cinquecento anni, per rigenerarsi.

C’è una scena, in Men. Lunga, insistita, a suo modo liberatoria. Harper che passeggia nella campagna, s’imbatte in una galleria ferroviaria abbandonata, che genera un’eco. E lei se ne sta lì a emettere suoni ancestrali, ripetuti dalla natura. Perfetta. Un momento sospeso, la vera rigenerazione è la negazione di ogni sovrastruttura, linguaggio compreso. Corrisponde quasi, se fossimo nel campo dell’arte figurativa (e in un certo senso ci siamo), al superamento della forma, in luogo della pura percezione. Men andrebbe visto anche solo per questa scena.

Ma, come abbiamo visto, Harper è ferita.

L’altro aspetto che ho adorato, in Men, è che esso parla di uomini. Garland vuole parlare di uomini. È un pensiero che affligge spesso anche me, in quanto uomo: lo stato in cui si sono ridotti gli uomini.

E lo fa partendo dall’ancestrale. Ci sono due simboli, in un bassorilievo all’intero di una chiesa, vicino a dove Harper ha affittato il suo casale: L’Uomo Verde e Sheela Na Gig.
Entrambi, probabilmente, pre-cristiani: l’Uomo Verde, dal volto coperto di foglie, è il ciclo naturale della vita e della rinascita, Sheela Na Gig, celtica, con seno e vagina in mostra, è una dea ancestrale, è madre, è fertilità. Sono entità interconnesse, in un dialogo perenne e millenario. È la nostra storia.

E poi il tarassaco, onnipresente, che è un fiore che si riproduce per partenogenesi, come fa Geoffrey, in un ciclo della vita che ripropone i suoi orrori, il suo dolore cieco e sordo, e tutto il dolore che ha potuto infliggere ad Harper.

Harper che, in questo caso, rifiuta il classico topos del genere, non uccidendo il mostro, ma in un certo senso assorbendolo.

Per costruire intorno a esso, intorno al dolore, una nuova sé. Inevitabilmente.

Men è un discorso sugli uomini, tutti incarnati da Rory Kinnear, oltre che sul dolore: uomini impazziti, impauriti, inutilmente e stupidamente aggressivi e violenti, incapaci di ricostruire, di accettare il dolore se non infliggendolo anche agli altri, in una fallacia logica che vuole il peso dimezzato, se condiviso. Vendette puerili. Un ciclo di rinascita del dolore che, mancando le donne (la maschera femminile indossata dal ragazzino fuori della chiesa) è fine a se stesso. Si ripete selvaggiamente, senza evolvere.

È un ritratto realistico, e poco lusinghiero degli uomini, Men. Questo è. Ed è un ritratto onesto. Che fa orrore.
E forse, non possiamo fare poi molto per rimediare a quello che è stato fatto, a parte, come Harper, assorbirlo e costruirci intorno qualcosa di meglio, di sano. La rinascita non è oblio, non è ignorare ciò che è stato, ma prenderne atto, assorbirlo. E cambiare per il meglio.

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E qu vi lascio la colonna sonora.

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