Antologia del Cinema

Match Point (2005)

Passato ieri sera in tv. Tra questo e i dinosauri canterini scelgo mille volte questo. Anche se, a essere sinceri, mai stato un fan di Woody Allen.
Non è che lo disprezzi, anzi, ma nemmeno lo adoro. È importante per capire.
Allen l’ho seguito in maniera sporadica durante l’arco della sua carriera. Con risultati di gradimento personale spesso altalenanti. Match Point è stato l’ultimo suo film che ho visto. Anni fa, quando ancora non avevo sviluppato un gusto vintage e, quindi, non sarei stato capace di ipotizzare i paragoni che soltanto ora, ebbro di bianco e nero cinematografico, riesco a concepire.
Mai curato tanto Woody Allen, dicevo, ma se tra voi c’è l’appassionato di turno, l’invito è a non restare in silenzio o nell’anonimato, ma a intervenire per un dibattito senza dubbio più interessante.
Tornando al film, non so come, lo noleggiai. Giravano voci, a quel tempo, che non fosse proprio una commedia.
O, meglio ancora, che fosse fin troppo aderente al genere, a quella commedia che, in fin dei conti, davvero poco ha da spartire con la comicità, sul genere spermatozoo in carriera o Mira Sorvino che si atteggia a prostituta, ma che piuttosto, sottende al grottesco e agli scherzi del fato. Questi ultimi sì, davvero spassosi.
Commedia genere principe, quindi?
Non sta a me dirlo, non adesso in questo post. Magari in questa stessa sede, tra un paio d’anni, quando mi sentirò pronto.

***

Fortuna

Tanto per cominciare una nota che stona. Lo faceva cinque anni fa, l’ha fatto anche ieri sera: le arie Una furtiva lacrima e L’elisir d’amore che martellano a più riprese.
Definite addirittura da alcuni critici statunitensi come infestanti. Con accezione negativa, tipo poltergeist.
Non so, infastidiscono. Sono incongrue e con l’ambientazione, la Londra contemporanea, e coi personaggi della upper e middle-class, e con le svariate situazioni inscenate.
Qualche pezzo lounge, d’atmosfera, avrebbe favorito una percezione meno straniante rispetto a quella irritante che si ottiene. Ma magari è un effetto voluto, chi può dirlo? Magari la voce di Caruso sta lì proprio per rompere le palle agli spettatori, per trasmettere disagio.
Il disagio è caratteristica chiave dell’intreccio, in effetti, alla luce del finale. Esso potrebbe essere suggerito, persino a livello inconscio, dall’incongruenza musicale.
Spettatore disagiato, allora, che meglio accoglie i rovesci della fortuna.
Ma non corriamo, perché si apprezza di più questo film sapendo nulla su di esso, o meglio ancora partendo da presupposti completamente sbagliati, come feci io a suo tempo: dal pregiudizio.
A volte, quasi mai nella vita reale, esso aiuta.

***

Incidentale

Una commedia romantica. Una relazione extraconiugale da parte di un uomo che sta scalando la società tramite un percorso che è tra i cliché più sfruttati: portarsi a letto la figlia del capo.
Piuttosto banale, per proseguire con la scelta degli attori: Scarlett Johansson, nel ruolo della bella e focosa aspirante attrice, Emily Mortimer nel ruolo della ricchissima figlia di papà e moglie ingenua e affettuosa, Jonathan Rhys Meyers in quello dello scalatore sociale che ha il piede in due staffe. Quest’ultimo fa persino l’istruttore di tennis. Più stereotipo di lui, non c’è.
Ed è proprio da quel mondo di plastica, quello dei corsi di tennis tenuti da ex-giocatori falliti, che si sviluppa il leit motiv dominante del film: la fortuna.
Chris Wilton, il personaggio di Meyers, si rivela non un cinico figlio di puttana, ma un fatalista asociale, innocuo all’apparenza, ma metodico e distaccato, lucido nel perseguire i suoi obiettivi, in una scelta sistematica della migliore alternativa, che sia la ricchezza della moglie o la bellezza dell’amante, e spietato nel difendere il suo status ottenuto, lui crede, solo per una questione di opportunità, di sorte. La vita stessa è incidentale, è solito ripetere.

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Palcoscenico

Se questo film fosse stato girato in bianco e nero, negli anni ’50, sarebbe stato un capolavoro del noir.
Le tracce caratteristiche sono tutte presenti, ed evidenti: le auto d’epoca, i vestiti, i fucili (anche quello di Checov), il contrasto sociale, i poliziotti ingenui, le situazioni grossolane (l’interrogatorio di Wilton da parte degli agenti), la violenza ineluttabile che, tuttavia, riesce inattesa e spiazza e per la gratuità e per la rapidità, tipica di chi non ammette riflessioni sull’oggetto (la vittima) di tale impeto, ma solo qualche casuale considerazione sulle conseguenze di tale atto.
Il doppiaggio italiano non m’è piaciuto per niente. Forse, e ribadisco forse, dato che non ho avuto modo di apprezzare il film in lingua originale, esso è complice della sensazione di Ritorno al Futuro che aleggia su Match Point; ovvero, come ho detto, quella di un film fuori della sua epoca, prelevato dal suo contesto naturale di violenta, ma elegante incertezza sociale, e spostato nell’indeterminazione della nostra epoca, che mira al nulla, all’appiattimento del concetto stesso di meraviglioso.
Meraviglia, infatti, dovrebbe suscitare la reazione spiazzante del protagonista allorché, ricattato nei suoi affetti e nelle sue ricchezze, reagisce come mai, come neppure gli stessi poliziotti, come certamente lo spettatore si aspetterebbe. Eppure, tutta l’esistenza di Wilton è un capriccio, oppure precisa volontà del fato: un’entità suprema. Ragion per cui, non di meraviglia ci si nutre, ma di attesa nel conoscere gli sviluppi che questo essere superiore ha stabilito per i protagonisti del suo piccolo palcoscenico.
Oserei dire che trattasi più che di cinema, di metateatro.
Ogni atto, ogni dialogo è stabilito e, quand’anche dirompente, contribuisce alla senzasione di predeterminazione che aleggia fin dai primi fotogrammi.

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Commedia

Unico lato stucchevole, oltre alla già citata location e alla colonna sonora, l’inconsistenza macchiettistica degli investigatori della polizia. Esagerata, che asseconda fin troppo lo spunto tipico della commedia degli equivoci, che è poi anche quella dominata da fattori esterni, più che dall’agire dei personaggi.
Allen mostra di sicuro un cinismo che non gli facevo suo. Insospettabile.
Forse il noir è esiste ancora. Forse, è necessario soltanto togliere un po’ di colore, per rivivere certe atmosfere.
Forse, esistono ancora gli attori e le attrici adatti per incarnare un’epoca. Purché si riesca a trovare un nuovo scopo.

Altre recensioni QUI

Autore e editor di giorno, talvolta podcaster. /|\( ;,;)/|\ #followthefennec
    • 14 anni ago

    Amo Allen. Non so se definirlo il mio regista preferito in assoluto (difficile stilare una classifica) ma siamo lì. Match Point è il suo lavoro più riuscito, negli ultimi dieci anni o forse più, ed arriva dopo una serie di pellicole sull’argomento, che si dividono tra commedia e tragedia. In crimini e misfatti si hanno presupposti simili pur con risultati differenti (ma soprattutto con personaggi opposti che a volte incrociano le stesse azioni). In match point, secondo me, si arriva allo sviscerare totalmente l’argomento, anche grazie all’ausilio della musica classica. Mi veniva in mente uno degli atti del padrino (il terzo, se non sbaglio) in cui la morte dei vari personaggi giunge sulle note della lirica. 40 minuti di uccisioni rese classiche e quindi marmoree, incise sulla pietra, grazie alla colonna sonora. Secondo me Allen ha voluto fare una cosa del genere: rendere le vite – più che sgraziate, imperfette, fastidiose nei cliché che vestono – immortali con l’ausilio di note divenute tali. Dà anche un senso di fatalità, certa musica, ma forse è una mia sensazione…

    Non capisco chi possa aver definito Match Point commedia, comunque sia. E’ difficile dare una denominazione ad un film, ma “commedia” mi sembra più che forzato…
    Non credo nemmeno sia un noir (come non lo era Crimini o misfatti e nemmeno misterioso omicidio, pur avvalendosi de La fiamma del peccato di Wilder nelle scene clou), pur vestendone certi panni.
    La fatalità di Allen, comunque, non è una novità. Sono decenni che ripete che le nostre vite in fondo non ci appartengono… Con il delitto – che paga un personaggio tanto spregevole! – ha solo calcato la mano, esaurendo il discorso.

    Ok, ho scritto un papiro ma la tua recensione è interessante e Allen una mia debolezza…

    p.s. Sì, il doppiaggio è inascoltabile.

      • 14 anni ago

      Vabbé, tieni presente che qui puoi scrivere quanto e come vuoi. Poi, da quel che leggo i tuoi interventi sono interessanti, quindi, vai pure.
      Come ho detto sopra non sono un esperto di Allen. Ho visto pochissimi suoi lavori. Quindi le mie impressioni derivano da questa mia visione parziale.
      Ma mi fido del tuo punto di vista.
      😉

    • 14 anni ago

    In effetti è un gradevolissimo noir che saccheggia (ops, cita) a piene mani le opere dei maestri del cinema passato e del buon Dostoevskji…

    Insomma storia godibile, ben girata, interpreti all’altezza, Londra sempre affascinante ma… ma questa volta Allen ha esagerato nell’infarcirla di tanti – troppi – cliché. Forse lo dico dopo aver visto sia Sogni e Delitti, sia Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (per non parlare dello stereotipo ispanico di Vicky, Cristina, Barcelona!). La “fiera del luogo comune” apre i battenti: le case upper-class da rivista di architettura, le donne che fanno le galleriste, i club esclusivi, l’americana sfrontata e disinibita contro l’inglese un po’ frigida, la bruna contro la bionda… Per non parlare dell’atmosfera “finta” che si respira: i gusti musicali che non si accordano con i personaggi rappresentati (l’opera), le belle auto, le persone per strada che paiono tutte uscite da pubblicità per abbigliamento casual di qualche rivista patinata…

    Scusa la lunghezza del commento…

      • 14 anni ago

      Scusa la lunghezza del commento…

      Eh?
      No, anzi, se vuoi puoi riscrivere l’intero articolo… 😉

      Dici che è patinato? Sì, sicuro. E in effetti una Londra così noiosa non l’avevo mai vista.
      Cioè, è proprio una noia mortale.

      In realtà, l’attrice che ho apprezzato di più è stata Emily Mortimer, piuttosto in parte, nel ruolo della ricca figlia un po’ vanesia.
      Per il resto, io non disprezzo le situazioni da cliché, purché offrano qualche variante.
      Qui è lo stile del girato che pecca. Come ho detto, sembra un film realizzato nei fifties, colorato e portato nel 2005. Quel che manca è la carica dirompente che avevano quei film, in quel determinato periodo storico.
      Ma credo che nelle intenzioni di Allen non ci fosse neppure una satira sociale, quanto proprio la deriva fatalista che pare averlo preso. Sembra voler dire: le cose stanno così, e basta. Un criminale se la può cavare perché il caso ha stabilito che deve accadere.
      Ragionamento, questo, che spiegherebbe i cliché come una sorta di disinteresse per lo sviluppo della storia in sé, piuttosto per le conseguenze di essa.
      Tutto è frutto del caso. Probabilmente pensa lo stesso della sua carriera da regista. 😛