Quest’articolo (che contiene anticipazioni) è dedicato a un’amica che aveva scritto di Martyrs come nessun altro. Una recensione (la troverete linkata a fine articolo) che io non ho mai letto. Lo farò dopo aver finito questa.
Eppure so già che è speciale, come lei.
Martyrs, di Pascal Laugier, è uno di quei film che evito. Perché avulso dal contesto delle mie passioni, perché è un’opera della quale stento a comprendere il senso, il fine ultimo della rappresentazione. E tutto ciò solo sul sentito dire. Vizio, e sfacelo. Per tutti.
Lo guardo, infine, privo d’influenze, senza sapere nulla, senza aver letto nulla. Conoscendo, a mala pena, il soggetto, a base di torture, e sbagliando circa le due protagoniste.
E poi si inizia, si guarda una fotografia di luce fredda, lattea, su una storia di vendetta ai limiti della follia.
E c’è la sorpresa. Che poi è l’essenza per godere appieno di qualunque esperienza.
Una ragazza, Lucie (Mylène Jampanoï) che si sfoga contro una famiglia borghese, benestante, casa pulita, mamma, papà e fratello e sorella. A colpi di fucile (dove invero la proiezione dei corpi che subiscono la scarica di pallettoni viola le leggi della fisica; ma che, suppongo, sia volutamente alterata perché trattasi di narrazione simbolica, perché la potenza dell’impatto, che avrebbe dovuto spezzare braccio e spalle di Lucie, si abbatte solo sui bersagli, evidenziandone la furia cieca, angelica). Una vendetta consumata senza lasciare alle vittime neppure una parola. Lucie è sicura che siano colpevoli, li ha riconosciuti da un giornale, e noi, nonostante la follia che prende le sembianze di un mostro deforme che la perseguita fin da quando era una bimba, siamo sicuri quanto lei.
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Lucie, quindi, primo personaggio, essenziale e esiziale. Ha ricevuto un battesimo del fuoco, da bambina, quando è riuscita a fuggire ai suoi carnefici. Il fatto che la sua mente ne sia stata toccata assume importanza anch’essa, nell’economia della storia, poiché prima di Anna, sulla cui esperienza si fondano tre quarti dell’intero film, è Lucie quella con cui trascorriamo una parte fondamentale.
Annichilito, quindi, proprio a causa delle torture subite, qualsiasi possibilità di sviluppo libero della personalità, la vita di Lucie, non lo sappiamo, non ci viene mostrata eccetto in tre fasi, la tortura e fuga, l’infanzia in un istituto e la casa dove si compie il destino, la sua vita dicevo è dedicata interamente a quei momenti in cui dispensa giustizia. Si copre di sangue, ma è intonsa, antitetica rispetto al martire, e proprio per questo fallimentare. Angelica perché invulnerabile alle sue vittime, è stata resa tale, e di contro vulnerabile solo a se stessa, alla sua fede, che l’attacca e la brutalizza, la spinge a compiere il suo fato. Non ha altro scopo, o sentimento. Si lascia aiutare dalla sua amica d’infanzia Anna, eccetto che nell’istante in cui c’è da passare all’azione.
Ed è proprio col completarsi della sua vicenda terrena, la vendetta, che la sua esistenza cessa di avere significato. L’aiuto, il supporto, il suturare le sue ferite sono atti di pietà assorbiti meccanicamente, o che scivolano via su un guscio impenetrabile.
Lucie non è nata martire, né può diventarlo. E questa sua indifferenza, anche all’amore di Anna, sta a dimostrarlo.
Anna (Morjana Alaoui), d’altro canto, è controparte, proiezione. Il suo amore deve guardare lontano, deve concentrarsi, deve essere puro, e con ciò riversarsi, che l’oggetto lo voglia o meno, che ne sia consapevole o meno, all’esterno.
In ciò pronta al sacrificio, ella ha dedicato tutta la sua esistenza a Lucie, ha trovato compimento e soddisfazione nel curare la sua pena e le sue sofferenze, pur essendo evidente che, a causa della sua stessa natura, Lucie non ne è mai stata cosciente. Rapporto duale, paritetico da un certo punto di vista, ma univoco da parte di entrambe.
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Il discorso di Laugier si fa interessante dopo che, all’apparenza, la situazione vendetta è risolta con la catarsi. C’è un lungo indugiare sulla copertura del luogo del delitto e una prima ammissione, che in realtà pare contraddittoria, della tensione mistica che caratterizza Martyrs. Come da titolo, il martire esplica nella violenza della sua morte una testimonianza di fede.
Che ci sia una precisa volontà di testimoniare un atto di fede è evidente dalla differenza di trattamento che Anna riserva ai corpi che infestano la casa. Per amore, devozione, per l’ossessione che ella possiede, Lucie è l’unica a ricevere, dopo il trapasso, le cure adeguate. Con gli scarsi mezzi a disposizione, il cadavere viene preparato, lavato e avvolto dentro un lenzuolo bianco, che dovrebbe essere di lino, ma che è solo un lenzuolo. Mancano gli oli profumati e il sepolcro, ma la danza intorno a certa iconografia classica è iniziata. È chiara, precisa, e persegue una precisa volontà all’apparenza demistificante.
Proprio Anna scopre il sotterraneo, che poi sarà luogo ultimo della sua esperienza terrena, ci si domanda come possa una semplice famiglia possedere risorse tali per organizzare una tale opera di violenza sistematica, a maggior ragione con la comparsa, in carne e sofferenza, del demone che tormentava Lucie. Non è la stessa persona, ma è stata la medesima mano a forgiarlo. La risposta è nell’ampliamento della prospettiva, nella gestione organizzata del crimine, nel metodismo laico (a suo dire) applicato a un fine terreno ma proiettato verso l’aldilà, conoscere cosa ci sia dopo la morte.
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Il punto focale, in questa organizzazione di vecchietti ricchi, laidi e avulsi dalla realtà, che seguono una sola ossessione, è la risposta, risposta che può giungere alle loro orecchie, si suppone, solo attraverso un martire. Ovvero una persona sottoposta a violenza e privazioni sistematiche per un periodo di tempo adeguato a che lo stato di coscienza si alteri, trasfigurando e, sempre in teoria, permettendole di raggiungere una nuova consapevolezza, assoluta. Un nuovo punto di vista, quello definitivo.
E lo si fa sulla base di una serie di foto, negando che lo stato di trasfigurazione del martirio abbia necessariamente una valenza religiosa e ricreandolo, in ambiente laico, in laboratorio, come fosse un esperimento.
Ed è qui che entra in gioco il personaggio di Anna, il cui unico scopo, aiutare l’oggetto del suo amore, s’è compiuto, dopo averne messo a riposo il corpo. Ma Anna è una martire potenziale, in quanto la sua natura, mai appagata, a differenza di quella di Lucie, trova altre applicazioni immediate, nella ragazza torturata che vede gli insetti e, fino alle estreme conseguenze, nel gruppo di potere che la mantiene segregata.
Appare non tanto evidente, quanto ineluttabile il fatto che la sua indole porti se stessa e il suo corpo a soddisfare il bisogno della congrega, la curiosità, la sete di conoscenza.
La natura di Anna è quella del sacrificio, come nella pura accezione religiosa.
Ragion per cui, assistiamo, sebbene in salsa laica, a un duplice atto di fede. Che, attenzione, non implica necessariamente lo schierarsi a favore di questa o quell’altra mitologia, ma che è puro, e si basa su una duplice convinzione, quella del gruppo di trovare la risposta attraverso metodi brutali e quella di Anna di rispondere a questa richiesta, non suffragata da alcuna certezza o prova fisica. E questa è, senza mezzi termini, fede. E la fede se ne sbatte del laicismo.
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Il finale si divide in due parti distinte. Ciò che sembra scontato, quasi un cliché, è, a mio avviso, effetto sistematico. Conseguenza del metodo scientifico applicato al martirio.
La cosiddetta esperienza di pre-morte, il tunnel buio e la luce bianca che ci attende alla fine è visione comune, direi quasi riproducibile. Sensato dunque, anche se meno fascinoso, riproporre ciò che appare essere conseguenza precisa di tali condizioni, queste ultime, abbiamo visto, ricreabili attraverso la tortura e la violenza.
Infine, il dubbio sulla testimonianza, sulla risposta fornita da Anna. Inutile perdersi in interpretazioni, il suicidio della vecchia è ineluttabile, in entrambi i casi. Sempre che ci sia di mezzo la fede.
La recensione della Zia
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