Quest’articolo è dedicato a chi, come me, un giorno s’è svegliato, o una sera s’è addormentato, con l’idea:
Massì, in fondo, potrei scrivere una storia. Lo fanno in tanti, lo posso fare anch’io! Che sono, peggio degli altri, io?
Ecco il pensiero dominante.
E, siccome questo pensiero s’insinua nella nostra testa quando siamo giovani e la scarica dei nostri ormoni c’illude di essere in grado di metterla in culo al mondo intero, proprio non vediamo cose come la fatica e la frustrazione che ci sono dietro alla parola scritta.
Perché siamo un dono del cielo.
È il mondo che non s’accorge di quanto siamo bravi. Perché il mondo è pieno di fessi.
Ma, dopotutto, è anche un po’ colpa nostra, dovevamo restare in cielo, non venire fin quaggiù a spargere il seme delle nostre lettere, no?
Là sopra ce ne stavamo tronfi e soddisfatti.
Ma a noi ci piacciono le cose difficili. Da sempre.
Quest’articolo è altresì dedicato ai maschietti. Ché io sono un maschietto e la mia illusione scrittoria è addivenuta attraverso numerose fasi.
E non so se le femminucce hanno o attraversano fasi simili. Per cui lascio volentieri la parola, in materia, a voi signore, se vi trovate a passare di qua.
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Le fasi:
1) Il dono del cielo
Ribelli, sicuri di noi e dei nostri mezzi. Coadiuvati in questo delirio di onnipotenza sia dagli ormoni che dagli studi scolastici, in particolare da quel dannato periodo storico e movimento artistico che cade sotto il nome di Romanticismo. Che è, di fatto, o meglio, che viene percepito, come un’onda d’urto che spazza via i parrucconi boriosi illuministi e i loro lumi della ragione e ci dice: il mondo è pieno di mostri, fantasmi, di demoni interiori. L’arte è passione irrefrenabile, non si può incarcerare. E anche che lo scrittore è (deve essere) un essere derelitto e miserabile, che tutto sacrifica ai suoi demoni. TUTTO.
In una parola: Masterpiece.
2) La masturbazione
Abbiamo fatto leggere qualcosa a qualche amico/parente. Ci è stato detto “Mmmhh… nì.”
Sì, lo so, tutti i parenti vi dicono che siete come Hemingway. Ma i nostri no: ci dicevano nì. Perché sono stronzi, o onesti. O un misto delle due.
Massì, siamo comunque un dono del cielo (vedi fase 1), solo che… non se ne sono accorti, succede. Ci dobbiamo impegnare di più.
Niente romanticismo, meglio scrivere della vita, la vita vera.
E ci sovviene in quel momento che ci sono stati poeti che a diciannove anni avevano già vissuto e visto quasi tutto, e avevano cantato di vino e puttane e di panorami sconosciuti in terre lontane. E a trent’anni erano già vecchi. E morti.
Per cui ci mettiamo a scrivere un romanzo di vita vissuta, senza aver vissuto. E Ci pare una cosa epica. Quando iniziamo a vergare le prime parolacce sulla carta: merda, cazzo, puttana. Non lo fanno mica tutti, la nostra scrittura è viscerale e genuina, come i veri scrittori. I più fighi tra gli eguali.
Ma lo teniamo nel cassetto, il nostro romanzo auto-biografico masturbatorio, ché nel frattempo le parole dei lettori c’hanno ferito e loro non capiscono niente e vogliono solo fermare la nostra arte.
3) La recitazione
Non tocchiamo penna o tastiera per anni, perché bruciati dalle prime critiche. O perché diffidenti, al contrario, dei troppi complimenti ricevuti. Perché noi lo sappiamo che le nostre sono solo cagate, ma non lo ammetteremo mai. Nemmeno quando siamo soli, nella nostra stanza. E non ci vede nessuno.
C’è però la memoria storica. Di quel periodo in cui abbiamo scritto tantissimo, animati dal sacro fuoco. E abbiamo sempre quel romanzo nel cassetto che parla di vita vissuta, che qui in Italia è una cosa fighissima, è ARTE. Romanzo a cui stiamo lavorando da anni, ma che non è mai pronto per coloro che ci domandano di leggerlo. Sapete, l’arte richiede tempo. E poi quelli che ce lo chiedono, in realtà non sono interessati davvero, vogliono solo sfotterci.
Ma la memoria storica, nostra e degli altri, ci consente di atteggiarci a scrittori.
È il momento in cui non conta ciò che si scrive, ma un titolo ego-riferito: SONO UNO SCRITTORE. Magari ci si veste in modo trasandato-chic, si fumano sigari, si ordina e si beve whisky o magari rhum, mentre i nostri amici banali sono rimasti alla coca-cola, e ci si comporta da filosofi un po’ maledetti.
E ‘sta cosa funziona solo nei film. Nella realtà gli amici ci prendono per il culo, e le ragazze ci schifano, ma non perché siamo ridicoli o vestiti come coglioni o beviamo strani intrugli: non solo per quello. Ma perché siamo rimasti ego-riferiti. Preferiamo farci le seghe sul nostro romanzo nel cassetto piuttosto che parlare con loro e vivere.
Questa è la fase dei coglioni irrecuperabili, che si trasformeranno in adulti disillusi e col vuoto dentro che li consumerà giorno dopo giorno. Difficile uscirne.
4) Il dialogo
Che nel nostro caso è coinciso con lo sbarco in internet.
Perché sì, tra le tante piccole sfighe, c’è capitato quella di nascere e crescere in una terra arida d’intelletto. Se avessimo conosciuto prima gente coi nostri stessi interessi, ci saremmo svegliati prima.
Ma quel che conta è svegliarsi no?
Entrare in internet conservando un po’ di quella arroganza che è nel nostro DNA, e iniziare a parlare con altra gente. Inviare a qualcuno un raccontino scritto di fretta e con orgoglio e ricevere per lettera elettronica (la benedetta mail), una stroncatura epica.
A quel punto, ci si ferma a pensare.
5) La vita
Poi subentra la vita. Che non s’annuncia mai.
Arriva per tutti. E non è quella che abbiamo inventato rapinandola ad altri scrittori famosi, questa è vera, è solo nostra, ci travolge.
Talvolta è talmente enorme che rischia di schiacciarci, e portarci via con sé in mezzo a altri detriti, come uno tsunami.
Ma ci risvegliamo sulla riva, al rumore della risacca. Siamo ancora vivi. E finalmente siamo cresciuti.
6) Tabula rasa
Diciamolo pure, eravamo convinti di essere speciali. Ma non lo siamo. Siamo mediocri scrittori. Ovvero scriviamo come tanti altri. Ma almeno… adesso ci siamo svegliati.
Non siamo geni incompresi, non siamo il dono del cielo. Abbiamo solo una strana passione: quella di raccontare storie.
E ora sì, abbiamo conosciuto gente con cui confrontarci alla pari, da cui apprendere e a cui insegnare. Perché non è che siamo ignoranti, tutt’altro: nel frattempo, quando c’illudevamo, abbiamo letto tantissimo e studiato. È solo che guardavamo le cose da un’unica prospettiva, la nostra.
Mentre siamo solo un puntino nell’universo.
7) L’uomo da un solo libro
Un bel giorno, un nostro amico propone un esperimento di scrittura collettiva online.
E noi, che ci siamo nel frattempo spogliati del mantello del Re di staceppa, e della corona (maledetto Napoleone che s’incoronò da solo), partecipiamo.
E le parole vengono spontanee. E bellissime. E non solo per noi, finalmente.
E non c’è traccia di retorica, in quello che scriviamo. Perché per la prima volta, parliamo davvero di noi, in quello scritto.
E il nostro lavoro piace.
E per un certo periodo ne siamo anche intimoriti. E pensiamo di non riuscire a scrivere nient’altro.
8) L’inizio
Ma la scrittura è sempre con noi. E le idee, passato il trambusto e il piccolo momento di gloria, cominciano ad arrivare di nuovo.
Difficile scrivere sempre bene. E a ogni nuovo inizio, la difficoltà e la fatica sono sempre le stesse, e la paura e i dubbi. Sono sempre lì, in agguato. E pure gli errori, e sono tanti. Solo che adesso abbiamo gli strumenti per riconoscerli e cacciarli via.
E ci distruggiamo di fatica, spesso per un solo “grazie”. Molto più spesso, al contrario, per essere ignorati. E sfottuti, e guardati con superiorità.
E c’è sempre quella domanda: ma chi ce l’ha fatto fare?
Dopo tanto tempo, ci accorgiamo che siamo lì, alla scrivania: scriviamo ancora.
Le domande non importano più. Importa solo farlo.