L'Attico

L’uomo scrittore

Quest’articolo è dedicato a chi, come me, un giorno s’è svegliato, o una sera s’è addormentato, con l’idea:

Massì, in fondo, potrei scrivere una storia. Lo fanno in tanti, lo posso fare anch’io! Che sono, peggio degli altri, io?

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Ecco il pensiero dominante.
E, siccome questo pensiero s’insinua nella nostra testa quando siamo giovani e la scarica dei nostri ormoni c’illude di essere in grado di metterla in culo al mondo intero, proprio non vediamo cose come la fatica e la frustrazione che ci sono dietro alla parola scritta.

Perché siamo un dono del cielo.
È il mondo che non s’accorge di quanto siamo bravi. Perché il mondo è pieno di fessi.
Ma, dopotutto, è anche un po’ colpa nostra, dovevamo restare in cielo, non venire fin quaggiù a spargere il seme delle nostre lettere, no?
Là sopra ce ne stavamo tronfi e soddisfatti.
Ma a noi ci piacciono le cose difficili. Da sempre.

Quest’articolo è altresì dedicato ai maschietti. Ché io sono un maschietto e la mia illusione scrittoria è addivenuta attraverso numerose fasi.
E non so se le femminucce hanno o attraversano fasi simili. Per cui lascio volentieri la parola, in materia, a voi signore, se vi trovate a passare di qua.

***

Le fasi:

"Entrai in quel bar a Mogadiscio, con una palla di vetro in testa. Facevo l'astronauta, era la notte di Halloween. Conobbi due ragazze. Dopo un paio di drink verdi e gialli mi chiesero di salire in camera. Volevano dei soldi. 'Ste bagasce."
“Entrai in quel bar a Mogadiscio, con una palla di vetro in testa. Facevo l’astronauta, era la notte di Halloween. Conobbi due ragazze. Dopo un paio di drink verdi e blu mi chiesero di salire in camera. Volevano dei soldi. ‘Ste bagasce.”

1) Il dono del cielo

Ribelli, sicuri di noi e dei nostri mezzi. Coadiuvati in questo delirio di onnipotenza sia dagli ormoni che dagli studi scolastici, in particolare da quel dannato periodo storico e movimento artistico che cade sotto il nome di Romanticismo. Che è, di fatto, o meglio, che viene percepito, come un’onda d’urto che spazza via i parrucconi boriosi illuministi e i loro lumi della ragione e ci dice: il mondo è pieno di mostri, fantasmi, di demoni interiori. L’arte è passione irrefrenabile, non si può incarcerare. E anche che lo scrittore è (deve essere) un essere derelitto e miserabile, che tutto sacrifica ai suoi demoni. TUTTO.
In una parola: Masterpiece.

2) La masturbazione

Abbiamo fatto leggere qualcosa a qualche amico/parente. Ci è stato detto “Mmmhh… nì.”
Sì, lo so, tutti i parenti vi dicono che siete come Hemingway. Ma i nostri no: ci dicevano nì. Perché sono stronzi, o onesti. O un misto delle due.
Massì, siamo comunque un dono del cielo (vedi fase 1), solo che… non se ne sono accorti, succede. Ci dobbiamo impegnare di più.
Niente romanticismo, meglio scrivere della vita, la vita vera.
E ci sovviene in quel momento che ci sono stati poeti che a diciannove anni avevano già vissuto e visto quasi tutto, e avevano cantato di vino e puttane e di panorami sconosciuti in terre lontane. E a trent’anni erano già vecchi. E morti.
Per cui ci mettiamo a scrivere un romanzo di vita vissuta, senza aver vissuto. E Ci pare una cosa epica. Quando iniziamo a vergare le prime parolacce sulla carta: merda, cazzo, puttana. Non lo fanno mica tutti, la nostra scrittura è viscerale e genuina, come i veri scrittori. I più fighi tra gli eguali.
Ma lo teniamo nel cassetto, il nostro romanzo auto-biografico masturbatorio, ché nel frattempo le parole dei lettori c’hanno ferito e loro non capiscono niente e vogliono solo fermare la nostra arte.

3) La recitazione

Non tocchiamo penna o tastiera per anni, perché bruciati dalle prime critiche. O perché diffidenti, al contrario, dei troppi complimenti ricevuti. Perché noi lo sappiamo che le nostre sono solo cagate, ma non lo ammetteremo mai. Nemmeno quando siamo soli, nella nostra stanza. E non ci vede nessuno.
C’è però la memoria storica. Di quel periodo in cui abbiamo scritto tantissimo, animati dal sacro fuoco. E abbiamo sempre quel romanzo nel cassetto che parla di vita vissuta, che qui in Italia è una cosa fighissima, è ARTE. Romanzo a cui stiamo lavorando da anni, ma che non è mai pronto per coloro che ci domandano di leggerlo. Sapete, l’arte richiede tempo. E poi quelli che ce lo chiedono, in realtà non sono interessati davvero, vogliono solo sfotterci.
Ma la memoria storica, nostra e degli altri, ci consente di atteggiarci a scrittori.
È il momento in cui non conta ciò che si scrive, ma un titolo ego-riferito: SONO UNO SCRITTORE. Magari ci si veste in modo trasandato-chic, si fumano sigari, si ordina e si beve whisky o magari rhum, mentre i nostri amici banali sono rimasti alla coca-cola, e ci si comporta da filosofi un po’ maledetti.
E ‘sta cosa funziona solo nei film. Nella realtà gli amici ci prendono per il culo, e le ragazze ci schifano, ma non perché siamo ridicoli o vestiti come coglioni o beviamo strani intrugli: non solo per quello. Ma perché siamo rimasti ego-riferiti. Preferiamo farci le seghe sul nostro romanzo nel cassetto piuttosto che parlare con loro e vivere.
Questa è la fase dei coglioni irrecuperabili, che si trasformeranno in adulti disillusi e col vuoto dentro che li consumerà giorno dopo giorno. Difficile uscirne.

Vincent Price
Scusami, Vincent, mi serviva la foto di un tizio con la corona. No hard feelings.

4) Il dialogo

Che nel nostro caso è coinciso con lo sbarco in internet.
Perché sì, tra le tante piccole sfighe, c’è capitato quella di nascere e crescere in una terra arida d’intelletto. Se avessimo conosciuto prima gente coi nostri stessi interessi, ci saremmo svegliati prima.
Ma quel che conta è svegliarsi no?
Entrare in internet conservando un po’ di quella arroganza che è nel nostro DNA, e iniziare a parlare con altra gente. Inviare a qualcuno un raccontino scritto di fretta e con orgoglio e ricevere per lettera elettronica (la benedetta mail), una stroncatura epica.
A quel punto, ci si ferma a pensare.

5) La vita

Poi subentra la vita. Che non s’annuncia mai.
Arriva per tutti. E non è quella che abbiamo inventato rapinandola ad altri scrittori famosi, questa è vera, è solo nostra, ci travolge.
Talvolta è talmente enorme che rischia di schiacciarci, e portarci via con sé in mezzo a altri detriti, come uno tsunami.
Ma ci risvegliamo sulla riva, al rumore della risacca. Siamo ancora vivi. E finalmente siamo cresciuti.

6) Tabula rasa

Diciamolo pure, eravamo convinti di essere speciali. Ma non lo siamo. Siamo mediocri scrittori. Ovvero scriviamo come tanti altri. Ma almeno… adesso ci siamo svegliati.
Non siamo geni incompresi, non siamo il dono del cielo. Abbiamo solo una strana passione: quella di raccontare storie.
E ora sì, abbiamo conosciuto gente con cui confrontarci alla pari, da cui apprendere e a cui insegnare. Perché non è che siamo ignoranti, tutt’altro: nel frattempo, quando c’illudevamo, abbiamo letto tantissimo e studiato. È solo che guardavamo le cose da un’unica prospettiva, la nostra.
Mentre siamo solo un puntino nell’universo.

7) L’uomo da un solo libro

Un bel giorno, un nostro amico propone un esperimento di scrittura collettiva online.
E noi, che ci siamo nel frattempo spogliati del mantello del Re di staceppa, e della corona (maledetto Napoleone che s’incoronò da solo), partecipiamo.
E le parole vengono spontanee. E bellissime. E non solo per noi, finalmente.
E non c’è traccia di retorica, in quello che scriviamo. Perché per la prima volta, parliamo davvero di noi, in quello scritto.
E il nostro lavoro piace.
E per un certo periodo ne siamo anche intimoriti. E pensiamo di non riuscire a scrivere nient’altro.

8) L’inizio

Ma la scrittura è sempre con noi. E le idee, passato il trambusto e il piccolo momento di gloria, cominciano ad arrivare di nuovo.
Difficile scrivere sempre bene. E a ogni nuovo inizio, la difficoltà e la fatica sono sempre le stesse, e la paura e i dubbi. Sono sempre lì, in agguato. E pure gli errori, e sono tanti. Solo che adesso abbiamo gli strumenti per riconoscerli e cacciarli via.
E ci distruggiamo di fatica, spesso per un solo “grazie”. Molto più spesso, al contrario, per essere ignorati. E sfottuti, e guardati con superiorità.
E c’è sempre quella domanda: ma chi ce l’ha fatto fare?

Dopo tanto tempo, ci accorgiamo che siamo lì, alla scrivania: scriviamo ancora.
Le domande non importano più. Importa solo farlo.

miyazaki

Autore e editor di giorno, talvolta podcaster. /|\( ;,;)/|\ #followthefennec
    • 11 anni ago

    Nemmeno io ho mai scritto niente di autobiografico. Eppure, ricordo che, ai tempi d’oro del grande real, quando per caso si entrava nel discorso “scrivo, o almeno ci provo”, arrivava SEMPRE, puntuale, ineluttabile, la domanda: “Un’autobiografia?”.
    Quando andava bene. Mi sono sentito dire anche “Le tue memorie?”.
    Come se a venti-venticinque anni potessi aver già vissuto esperienze così interessanti.
    e qui ribalto quello che hai scritto all’inizio della tua fase 3: non io che scrivo libri ego-referenziali, ma gli altri che se lo aspettano. I futuri spettatori di Masterpiece.

      • 11 anni ago

      Be’, ma se la gente di aspetta questo tipo di libri è perché a) esistono e b) è stata abituata, come me del resto, a pensare che solo la vita vera sia fonte di letteratura. 😉

    • 11 anni ago

    Io non ho mai scritto nulla di biografico. Mai.
    Al massimo infilo “pezzetti di me” nei vari personaggi dei miei racconti. Che però sono quasi sempre stato di genere fantastico.
    Sicché non mi sono mai potuto/voluto atteggiare a scrittore, perché se dici di scrivere di mostri, fantasmi e astronavi, qui in Italia ti dicono che non sei normale.
    Nei tanti anni in cui non ho più scritto è stato soprattutto per questo motivo: frequentavo gente tragicamente normale, sicché mi ero omologato a loro.
    Poi, pian piano, ho ricominciato.

      • 11 anni ago

      Probabilmente è colpa di studi diversi. Sì, mi piaceva il fantastico, ma non ho mai aspirato a scrivere storie del genere, perché convinto, persuaso forse da insegnanti, non ricordo bene. che fosse vera la lezione impartita a Masterpiece: la scrittura è una cosa vera, la fantasia è per bambini.
      Poi sono successe tante altre cose…

        • 11 anni ago

        Però in un certo senso è vero: ti indottrinano a pensare a un certo tipo di scrittore. E quindi in automatico tu aspiri a diventare una sagoma. E il testo non conta più, passa in secondo piano.

        Allo stesso modo, ma opposto, si consigliava di non somigliare ai tipi strani che scrivevano fantasy. E infatti vedevi le loro foto ed erano d’aspetto normalissimo, tutto fuorché epici. E lo erano anche le didascalie che li accompagnavano.

        Mentre su un Miller, per esempio, si abbondava di paroloni per descrivere quanto fosse stata figa la sua vita infernale, da uomo vero. Quando faceva la fame a Parigi.

        Che per carità, quel libro continuo ad adorarlo, ma ecco, la lezione che ho appreso dalla sua lettura ora la uso nelle mie storie, in cui parimenti uso la componente fantastica. 😉

        • 11 anni ago

        Meno male che sono successe, dai 😉