Sarebbe giusto dimenticare alcuni film, lasciarli su uno scaffale a prendere polvere e umido, tanto da renderli inutilizzabili, in modo che non àlterino l’equilibrio psico-fisico dei poveri sventurati che hanno deciso di guardarli. Altri, invece, e lo sostengo da sempre, in quanto cazzate incredibili, andrebbero visti come esempio, in modo che le generazioni future impàrino a distinguere ciò che è orribile da ciò che non lo è e in futuro non ripetano gli stessi errori.
L’Ululato (The Howling) è un film sui licantropi del 1981 diretto da Joe Dante.
Scommetto che vi state chiedendo a quale delle suddette “categorie” appartiene. Ci arrivo tra un momento, non preoccupatevi. Prima, però, mi preme chiarire due cose:
a) per me non esistono generi e categorie, lo sapete. Alcune volte le cito per comodità, perché il mio messaggio arrivi prontamente al lettore. Un film sui licantropi, se ben fatto, ha la stessa dignità di un capolavoro drammatico. E questo è quanto.
b) il seguente articolo è stato scritto senza aver visto il recente The Wolfman (2010). Alcune delle mie considerazioni potrebbero essere già state smentite da quest’ultimo film, in tal caso invito chiunque l’abbia visto a dire la sua, sempre che riesca a superare la paura della registrazione e del login…
Ebbene, vi stupirà sapere, dopo aver letto un’introduzione così aggressiva, che per me L’Ululato non è un pessimo film, tutt’altro. Tornando al discorso sulle fottute categorie, dovrebbe essere annoverato tra i film da tenere presenti nel caso si dovesse assecondare l’idea di realizzare un’ulteriore pellicola, non banale, sui licantropi. Cosa che, a giudicare dai film (pochi) apparsi nell’ultimo trentennio, nessuno fa. E questi sono davvero film da annoverare nelle prime due categorie enunciate all’inizio. Dove lupi mannari di gomma ricoperti di peluria fanno del loro meglio per risultare ridicoli. E ci riescono sempre, tra qualche sprazzo di lucidità.
Per la cronaca, ce l’ho anche con Un Lupo Mannaro Americano a Londra (1981) in cui il licantropo, alla fin fine, sembra un cagnolone troppo cresciuto, rifugiatosi in un vicolo, nel tentativo di sfuggire agli accalappiacani crudeli e armati fino ai denti. Per non parlare dell’osceno modo che aveva di muoversi. A metà tra un bambolotto che avanza carponi e Bruce lo squalo, senza avere dalla sua lo strato di acqua a coprire le nefandezze della sua scarsa evoluzione tecnologica.
Non capisco il perché, ma il licantropo, in quanto creatura leggendaria, è condannato dal mondo del cinema ad una perenne rivisitazione del mito. Per narrare la sua storia si parte sempre dall’inizio, dall’uomo morso da un lupo. La cornice può variare. Si passa dall’epoca vittoriana alla Londra degli anni ’80 con relativa facilità, ma si è costretti, ogni volta, a sorbirsi la psicosi crescente del personaggio, il suo conflitto interiore, i suoi incubi e la sua crescente voglia di sangue in concomitanza con la luna piena. Poi arriva la trasformazione, dolorosa e oggettivamente ridicola in moltissimi casi, complice soprattutto l’arretratezza degli effetti speciali, e di seguito la caccia, l’omicidio; per giungere all’improvvisato cacciatore di lupi mannari dotato di pallottola d’argento appena fusa che… BLAM! lo fa secco con un solo colpo: guaiti di sofferenza e il malcapitato mannaro ritorna ad un pietoso stato umano. Fine.
Diciamo che questo è il canovaccio. E, come ogni canovaccio, non pretende di essere esaustivo: ho ben presente che esistono le -rare- eccezioni. Ma qui si discute di cinema e, inoltre, converrete con me, si tratta di eccezioni molto piccole, direi quasi naturali per qualsiasi canovaccio, che si presta per la sua stessa natura a lievi reinterpretazioni.
Il problema è che, così facendo, persistendo nel voler a tutti i costi ri-narrare l’inizio della storia si è persa ormai ogni possibilità di catturare l’attenzione del pubblico.
La storia del licantropo è il già visto oltre i limiti dell’umana sopportazione. E’ lo stereotipo incarnato. La sua quintessenza.
E non mi parlate di vampiri, ok? Verrà il loro turno, ve lo prometto.
L’ostacolo, per me, stava inizialmente nella dualità del protagonista. Nel suo lato umano. Quanto poteva risultare noioso il Dott. Jekyll e quanto stimolante, di contro, Mr. Hyde?
Sul serio, a chi mai poteva interessare l’uomo?
E poi, voi ci credete ancora nel simbolismo della trasformazione, nella possibilità che la trasformazione offre di dare sfogo alla natura interiore, ai bisogni reconditi del subcosciente?
Quanto è insulso l’uomo se paragonato ad un ammasso di muscoli, artigli, zanne, veloce e agile, il predatore notturno per eccellenza?
Questo era vero, fino a qualche tempo fa. Quando era ancora piacevole farsi terrorizzare da un ringhio nella notte, seguìto da un baluginìo di occhi rossastri e dallo scatenarsi della furia bestiale.
Oggi la questione è: come può una creatura siffatta avere ancora spazio? Come può esistere impunemente in questa era, sinonimo di sorveglianza e controllo?
La bestia deve essere ancora l’eccezione da combattere con l’ausilio di mezzi leggendari perché l’anomalìa venga prontamente annullata e la normalità ristabilita?
L’uomo non ha più paura dei lupi mannari. Perché la violenza sistematica e industrializzata che, da solo, egli riesce a commettere, è ben peggiore di una qualsiasi aggressione notturna a base di zanne e artigli.
Il mostro finisce braccato, come un qualsiasi King Kong, una creatura sconosciuta, forte, ma impaurita e impotente rispetto alla ritorsione umana, alla vendetta che ristabilizza l’equilibrio nel quale ogni anormalità deve essere distrutta perché non prevista e non gradita.
Solo io provo una certa pena per questa creatura così disadattata, il licantropo, estranea ad un mondo sempre meno selvaggio e sempre più violento, ma in un senso razionale, e quindi sempre più alieno nei riguardi della bestia?
L’Ululato parte da presupposti diversi e intriganti. Joe Dante prova, riuscendo a metà nell’impresa, a sguazzare in tematiche adulte, sadismo, ferocia e perversione, ma si perde dietro effetti artigianali che restituiscono a quell’atmosfera purpurea che era riuscito a mettere in piedi una dimensione terrena, fin troppo familiare, quasi avesse avuto paura di insistere. I suoi film successivi, poi, non hanno fatto che confermare questa contro-tendenza, ovvero il suo pentimento e la successiva redenzione nella realizzazione di una cinematografia per ragazzi che pure ci ha consegnato quel gioiellino di Gremlins (1984).
Il film prende le mosse nel sordido sottobosco dei pornoshop, dove una popolare anchorwoman, Karen White, si reca perché invitata ad un rischioso abboccamento da un sedicente serial killer, Eddie the Mangler, che da qualche tempo sta terrorizzando la città con una serie di delitti efferati che lo stesso è solito firmare con adesivi raffiguranti uno smile.
L’incontro con Eddie dura interminabili minuti, fino a quando non sopraggiunge la polizia che fredda l’uomo con un colpo di pistola. Karen ha subìto un forte trauma durante quella breve esperienza e soffre di attacchi di panico e amnesia. Qualcosa, nel volto di quell’uomo, l’ha scioccata al punto tale da farle rischiare la sanità mentale.
Dietro consiglio del suo psichiatra ella, insieme a suo marito, si reca in una colonia privata, situata in un’amena località boscosa, vicina al mare, abitata da altri pazienti, dove potrà recuperare le forze e i suoi ricordi in opportune sedute di terapia di gruppo. La comunità in mezzo ai boschi, però, è asilo e rifugio sì di esseri disadattati, ma di tutt’altro tipo. I licantropi hanno fondato infatti tale sede per essere liberi e sfuggire alle persecuzioni umane, per poter esprimere liberamente loro stessi e la loro natura selvaggia.
Eddie è uno di loro ed è colpevole di aver esposto la loro dimora e la loro stirpe ad una grave minaccia, per aver dato sfogo alla sua ossessione per quella donna, Karen, ed averla voluta condurre fin dentro la loro casa.
Seguendo un intreccio abbastanza pasticciato, a base di ululati notturni, bibliotecari esperti di lupi mannari e individui che, di volta in volta, vengono aggrediti per essere sbranati o contagiati, il film trova una brillante soluzione finale che è insieme specchio dello scetticismo dei nostri tempi e, a mio avviso, critica verso un certo tipo di cinematografia talmente scontata da averci privato della capacità di emozionarci e stupirci: Karen, oramai contagiata, decide si svelare al mondo intero l’esistenza dei licantropi trasformandosi in diretta tv.
La reazione popolare è quantomeno sorprendente e consiste in una generale diffidenza sulla presunta veridicità delle immagini trasmesse che vengono automaticamente associate alle “moderne” tecniche degli effetti speciali per promuovere il prodotto di turno.
Ma l’essenza della natura ferale dei licantropi e la loro voglia di carne e sangue rimane intatta. Lo show di Karen, diffondendo scetticismo e incredulità, non ha fatto altro che rendere la vita dei licantropi molto più semplice. D’ora in poi, in un mondo che crede ancora meno del solito, sarà più facile nutrirsi e godere della propria selvaggia natura…
Ciò che mi piace di questo film va al di là della qualità dello stesso che, ribadisco, non è elevata; non sono i soliti effettacci speciali e mediocri, ma il suo tentativo di attualizzare la figura del licantropo che sguazza nel marciume del sottobosco urbano, compie omicidi che si confondono con l’umana brutalità, addirittura si presta al gioco della personalizzazione firmando i propri delitti come un qualsiasi serial killer, godendo a sua volta del culto della personalità che gli viene tributato.
Il licantropo vive accanto ai propri simili, ai margini ma integrato, nascosto ma terribile e crudele e gode, infine, della stupidità dell’uomo che, pur vedendolo, non lo riconosce, essendo abituato quest’ultimo da secoli a temere l’ignoto più del noto.
Esso è temuto finché si mimetizza da essere umano. Paradossalmente, quando invece mostra la sua natura bestiale, viene irriso e ignorato. L’uomo, da solo, nella sua banalità, fa ormai molta più paura e i mostri sono costretti, per sopravvivere, a diventare come lui.
Esperti di Licantropi: