“Io sono leggenda” (“I am Legend”) di Richard Matheson è un testo molto conosciuto tra gli appassionati di horror e fantascienza distopica. Tutti gli altri, o almeno la maggior parte, lo rifuggono come i vampiri l’aglio. Le ragioni sono più che ovvie. Non a tutti può risultare gradevole una storia di questo tipo, quasi interamente costruita intorno a un uomo solo e ai suoi fantasmi del passato, prigioniero della propria casa, mentre fuori quel che resta del mondo vuole ucciderlo con tutti i [pochi] mezzi a disposizione.
Allo stesso tempo tutti dicono di conoscere le sue trasposizioni cinematografiche, compreso il film di Ubaldo Ragona, ovvero questo in esame. Ma quanti possono dire di averlo visto sul serio?
La potenza del nome di Will Smith, e solo quello, ha spinto il pubblico a recarsi a vedere una New York riconquistata dalla natura e da animali in cattiva CGI. Will Smith, solo lui e il cane, il pastore tedesco femmina, che l’accompagnava e che come ogni attore canino, supera, di gran lunga il suo partner umano, per donarci scene davvero intense.
Ma il libro e il suo significato restano luoghi oscuri ai quali, inspiegabilmente, non si riesce a dare forma.
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Dei tre adattamenti, il film di Ragona, L’Ultimo Uomo della Terra (“The Last Man on Earth”) resta il più fedele all’opera di Matheson, avendo quest’ultimo contribuito alla stesura della sceneggiatura. Pur non incontrando, il risultato finale, l’approvazione dello scrittore che, per questo motivo, rifiutò di essere accreditato col suo vero nome e risulta invece sotto lo pseudonimo di Logan Swanson.
A differenza di tanti altri casi presi in esame, “I am Legend”, il libro, lo conosco alla perfezione. L’ho letto e riletto e lo giudico uno dei testi più belli di sempre. Non tanto per il valore assoluto dell’opera, come sempre opinabile, quanto perché risponde a ogni mia esigenza di lettore: solitudine, disperazione, speranza, sogni infranti e, in chiusura, uno dei finali più inattesi di tutti i tempi.
La fine del mondo arriva a metà degli anni ’70. Più o meno quando sono nato io, ma la forza della scrittura di Matheson lo colloca al di fuori della dimensione temporale. L’apocalisse ivi rappresentata e descritta è magistrale. Lo scoramento di Robert Neville, il protagonista, difficilmente eguagliabile.
Così che neanche Vincent Price riesce a incarnarlo, a dare un volto al superstite, che appaia credibile e che sappia trasmettere, soprattutto, quel carico d’angoscia che trasuda da ogni singola pagina del libro.
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[CONTIENE ANTICIPAZIONI]
“L’Ultimo Uomo della Terra” doveva essere prodotto dalla Hammer Film e ambientato in Gran Bretagna. Per alcune beghe di produzione il progetto passò a Robert L. Lippert, un associato statunitense, che decise di filmare a Roma. Il risultato è straniante. Una realtà in cui i protagonisti conservano nomi inglesi, dove sapientemente si sono eliminate le tracce di italianità, dalle targhe dei veicoli ai segnali stradali, pur persistendo giganteschi i titoli dei giornali e dove la magnificenza di Los Angeles, con le sue arterie stradali immense, i suoi grattacieli, le colline scoscese ai piedi delle quali bruciano le pire dei morti, sono sostituite dalla placida campagna romana e da qualche strada provinciale tranquilla e sonnacchiosa.
L’EUR carico di romanità futura, si staglia sullo sfondo, cornice ai pochi, sparpagliati corpi dei morti, per suggerire l’idea che il mondo sia ormai finito.
Vincent Price (Robert Morgan) è un omone robusto che sembra essere nato in un’altra epoca e portarsi addosso il peso di un mondo, il suo questa volta, che non c’è più. In questo senso, agli occhi di un moderno spettatore, appare ottocentesco. Come se un uomo del secolo precedente fosse scampato chissà come al passare del tempo e fosse rimasto l’ultimo, il superstite, in un’epoca che gli è estranea persino negli abiti che indossa. Non so come la sua interpretazione sia stata percepita al quel tempo. Il film fu accolto tiepidamente, ma oggi, come accade spesso, confrontata questa pellicola in bianco e nero, con gli adattamenti del 1971 con Charlton Heston e del 2007 con Will Smith, appare essere opera compiuta, anche se non avvincente e, come ho già detto, fedelissima trasposizione dell’opera letteraria.
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Sono presenti, infatti, tutti o quasi gli elementi e i personaggi del racconto. A cominciare da Ben Cortman, qui interpretato da Giacomo Rossi-Stuart, vicino di casa e collega di Morgan/Neville, poi tramutatosi in vampiro, anzi in quel vampiro che, di sera in sera, è sempre il primo ad avvicinarsi alla villetta-bunker di Morgan, ossessionato dall’idea di uccidere il suo ex-amico. La moglie Virginia (Emma Danieli) che esplicita la stessa funzione dell’omonimo personaggio del romanzo, morire e ritornare per far accettare al protagonista tutta la follia e l’irrealtà in cui il mondo è precipitato. Il cane che Morgan incontra anni dopo lo scoppio dell’epidemia, fonte d’amore e di dolore, in quanto la bestiola è una creatura che, come lui, ha perso del tutto la propria natura affettiva perché costretto a esistere nella paura e in uno stato continuo di allerta. E, infine, Ruth (Carolyn de Fonseca), la donna, altra superstite, incontrata da Morgan/Neville verso la fine della storia, colei che lo porterà ad accettare il suo destino di creatura leggendaria, di leggenda per creature a loro modo leggendarie, i vampiri.
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E tuttavia, questa aderenza al testo non garantisce la stessa potenza espressiva. Le scene sono rappresentate con mestiere, ma senza particolare approfondimento che poteva essere dato dall’indugiare sui volti, sui particolari, sui momenti della storia. Non aiuta la colonna sonora, pesantissima, ingombrante e tipica del periodo e la voce fuori campo di Morgan che spiega ciò che è fin troppo evidente già dalle immagini.
I vampiri sono creature che sanno di leggenda e di scienza. Essi sono esseri umani tramutati da un virus che li spinge a fuggire dalla luce del sole, mandandoli in uno stato di incoscienza simile al torpore e a nutrirsi si sangue umano, virus che causa un ritardo nelle facoltà mentali, tale da impedire agli assedianti della villa di riuscire a penetrarvi per uccidere Morgan, ma sono più simili, nel loro barcollare, agli zombie romeriani, che avrebbero fatto la loro comparsa nel 1968. Questi vampiri sono ancora dominati dalle loro paure ancestrali e leggendarie, le croci, l’aglio, gli specchi. Ma tutto quello che in “I am Legend” era scoperta, analisi scientifica del fenomeno, ricerca sistematica di un passatempo, fosse anche solo dare la caccia a Ben Cortman, tentativo di comprendere quanto, nelle nebbie del mito, fosse reale delle superstizioni legate ai vampiri, quanto non fosse in realtà semplice condizionamento mentale, in cervelli ormai malati, la ricerca di una causa e una spiegazione all’apocalisse, nel film di Ragona diventano atti dovuti, leziosi, ripresi per arrivare alla fine e completare un compito ingrato e mal digerito.
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A cominciare da questo adattamento, e via via nei due successivi, risulta incomprensibile la scelta di far intravvedere la speranza di una cura, un vaccino derivato dal sangue del protagonista, dotato di una naturale immunità. Un lieto fine carico di prospettiva per l’avvenire che non fa altro che rovinare il senso di ineluttabilità del romanzo.
Quando il mondo finisce, finisce per davvero. Inutile insistere.
Anche se Ragona, o forse Matheson, mascherano il tutto facendo in modo che la vagheggiata cura giunga troppo tardi e non venga neanche vista dalla cecità dei rappresentanti della nuova società, violenta e cruda come tutti i nuovi ordini nati dal sangue di una rivoluzione.
La tecnica cinematografica progredisce sempre più, diventa sofisticata, è in grado, ad esempio, di far arrotolare la città di Parigi su sé stessa, come un foglio di carta, eppure non si riesce ancora a rappresentare degnamente la lotta di un uomo solo… in un mondo di mostri.
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