Il Richiamo di Cthulhu (The Call of Cthulhu) è un titolo impegnativo. Divenuto tale col trascorrere del tempo. Col senno di poi, si potrebbe dedurre, in perfetto stile lovecraftiano.
Una sensazione, più che un concetto, indefinita, che sedimenta con l’età, non t’abbandona mai. Quella di una mitologia possibile, come altre, la cui concezione genera angoscia, quell’orrore cosmico che è, soprattutto, consapevolezza della propria impotenza di fronte a eventi, fenomeni, creature, meglio dire entità incoercibili. E ci riesce, nel produrre quest’effetto, anche dopo che l’uomo è diventato arrogante, scoprendo l’energia dell’atomo.
I tempi erano quelli, Il Richiamo fu scritto nel 1926 da H.P. Lovecraft e pubblicato due anni dopo da Weird Tales, nel Febbraio 1928.
E probabilmente, nessuno, tanto meno gli editori, si rendeva conto di avere tra le mani il meraviglioso. A ben guardare, dato che lo stesso Lovecraft non considerava il suo racconto come uno dei migliori, uno che non solo intuì il suo potenziale, ma lo definì un capolavoro destinato a segnare la futura letteratura ci fu: quel Robert E. Howard, alter-ego di Conan, o viceversa.
Che poi lo sappiamo, che Bob era a modo suo ipersensibile verso certi fattori. Ma la realtà è che, se ancora oggi, la lettura di quella quarantina di pagine narranti l’investigazione di Francis Wayland Thurston riguardo un culto perduto nelle pieghe del tempo, quello del sognante Cthulhu, suscita emozione, riusciamo a intuire la potenza della scrittura di Lovecraft.
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Che è tale in quanto non si ferma al testo, non risiede nella parola, ma nell’inconscio. Fa leva su sentimenti sconosciuti eppure familiari a tutti. Oserei dire istintivi, come la paura del buio, che si trasmette da eoni. La paura dell’ignoto…
Lovecraft quindi la trasmise al suo testo, questo e ai tanti altri racconti che hanno contribuito alla costruzione della Mitologia di Cthulhu, quasi in modo inconscio. Di sicuro voleva rimetterci le mani.
Insisto su questo passo perché lo trovo a dir poco singolare, e indicativo. Perché da questo racconto è scaturita una parte dell’immaginario fantastico collettivo.
Tantissimi hanno intuito il terrore cosmico che si prova alla vista di Cthulhu, quasi nessuno è riuscito a rappresentarlo, nei racconti, nei disegni, al cinema, perché è “indescrivibile”. E inoltre, quasi tutti, nelle rielaborazioni, non riescono a non mettervi mano e imporre cambiamenti. Secondo la pura tradizione del mito tramandato, e modificato, a seconda del narratore.
Ed è la stessa limitatezza umana a renderlo tale, quel mito. Il Cthulhu sognante, che riposa nelle profondità del Pacifico, nella Città di R’lyeh, è creatura inintelligibile, che la nostra mente limitata si sforza di rappresentare. Considerazione, questa, non gratuita, ma scaturita dalla lettura del testo del Richiamo, in cui non solo la forma del mostro, ma soprattutto le rovine di R’lyeh sfuggono alla normale percezione. Nell’aprire la porta alla dimora di Cthulhu, chi narra la scena dichiara di non sapere con precisione dove fosse il sopra o il sotto, in quel momento. La normalità, quindi, non alterata, ma semplicemente incomprensibile ai nostri limitati organi di senso.
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E questa si è rivelata essere la “maledizione” insita in tutta l’opera lovecraftiana. I suoi racconti, alla realtà dei fatti, appaiono irriproducibili, soprattutto al cinema.
Impossibile non tanto tradurre in immagini i suoi lavori, quanto riuscire a trasmettere, da quelle stesse immagini, medesimo senso di stupore e solennità.
Riallacciandomi al discorso iniziale, è come se tutti gli autori che si sono cimentati nell’impresa abbiano intuito, intimamente, la potenza del racconto, ma abbiano fallito nella rappresentazione.
Lo stesso Lovecraft è terribile, in senso buono, nei passi dedicati al mistero, alla scoperta programmatica del medesimo, riesce a evocare l’angoscia del comune mortale alle prese con l’assoluto. Lo è meno quando si sofferma a descrivere mostri tentacolari nei minimi dettagli.
Nel Richiamo, l’orrore cosmico non è tanto incentrato sulla statuetta d’argilla raffigurante Cthulhu, né sui riti voodoo degli adoratori, quanto nella colonna che sorge nel punto più lontano delle terre emerse, la città di R’lyeh che affiora a pelo d’acqua, melmosa, abbandonata, semplicemente troppo grande e aliena per essere stata concepita dall’intelligenza umana.
Stessa magnificenza evocata, per fare un solo esempio, dalle mura intraviste dall’aereo, durante l’esplorazione delle Montagne della Follia.
A entrare in gioco è la consapevolezza di essere di fronte all’altro, ovvero a un fattore sconosciuto e, almeno nell’immediato, incomprensibile. A maggior ragione quando la nostra stessa percezione ne risulta alterata.
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A definire ancor più lo scarto evolutivo che c’è tra l’uomo e queste creature è l’indagine, quella che porta alle scoperte, alla conoscenza e identificazione di questi esseri che hanno regnato sulla Terra eoni prima dell’avvento dell’uomo, provenienti dalle stelle e alla scoperta stessa, all’incontro, con uno di essi, che è incontro letto, non vissuto, perché la forma del Richiamo è un reportage, un collage di pseudo-testimonianze contaminate da parti narrative, secondo la definizione di E.F. Bleiler.
Il Richiamo di Cthulhu è nei sogni che esso ispira negli uomini sensibili, negli artisti che ne vengono ossessionati tanto da raffigurarlo, è un radiofaro, emesso a intervalli precisi, governato dagli astri, da una particolare predisposizione e influsso di essi, di una creatura intelligente, viva, perché ha superato il concetto stesso di morte, che comunica attraverso i suoi stessi sogni.
Percepirla corrisponde già a una sorta di dannazione, impossibile a quel punto rinunciare a compiere il viaggio verso la scoperta, pur sapendo che essa segnerà la fine per il Cercatore.
Quindi cos’è Cthulhu?
È un racconto scritto da un autore che si dichiarò insoddisfatto del risultato finale, pubblicato da una rivista Pulp.
Un racconto che ha influenzato l’immaginario collettivo, lo ha popolato di tentacoli, angoscia, mostri.
Cthulhu è un monstrum, un prodigio, probabilmente lo è anche Il Richiamo. S’è rivelato tale, lo è dentro ognuno di noi. Impossibile descriverlo e portarlo allo scoperto: in un film ci sembrerà sempre un gigante panciuto con ali di drago e la testa di un calamaro. Probabilmente un Godzilla qualunque, che si scaglia contro una nave e che viene smembrato da essa. Niente di eccezionale, in fondo.
Eppure, rileggendo Lovecraft, ripercorrendo questi semplici passi, lo vediamo in tutta la sua magnificenza e temiamo il suo ritorno, probabilmente lo desideriamo:
Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn – Nella sua dimora di R’lyeh, il morto Cthulhu attende sognando
e ancora,
Non è morto ciò che in eterno può attendere
E col passare di strane ere anche la morte muore
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E infine, come se la tradizione popolare e spontanea creatasi attorno ai Miti di Cthulhu non fosse sufficiente, nel 1997, ci si mette anche la realtà, a portare ulteriore colore al Richiamo.
In quell’anno, il NOAA, National Oceanic and Atmospheric Administration, captò un suono di frequenza ultrabassa, denominato “Bloop”, la cui origine è rimasta sconosciuta.
È stato individuato a queste coordinate: 50° S 100° W, a largo delle coste del Sudamerica, sul versante Pacifico.
La città di R’lyeh, secondo quanto descritto nel Richiamo venne individuata dalla nave Alert a 49°51′S, 128°34′W.
Impossibile non trarre considerazioni suggestive. Impossibile non fantasticare sull’intera vicenda e non immaginare costruzioni ciclopiche sorgere dalle acque dell’oceano.
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Per concludere, voglio segnalare The Call of Cthulhu, un film muto del 2005 diretto da Andrew Leman, girato nello stile degli anni ’20, quindi contemporaneo all’opera di Lovecraft. Reperibile per intero sul Tubo, QUI.
E i Giochi di Cthulhu, libro del mio amico Matteo che ripercorre i passatempi ludici ispirati agli scritti di Lovecraft.