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L’opera e il nulla – Luigi Cervone

Mi occupo di un artista italiano, Luigi Cervone.
Lo faccio come – credo – a lui piacerebbe, ovvero evitando di citare date, titoli, citazioni, elenchi di mostre e partecipazioni assortite.
Ci sono, ma non sono importanti. Risulterebbero in un fumoso elenco che sottrae spazio all’opera d’arte.
Perché una cosa condivido con l’artista che, per inciso, ha tre anni più di me, che l’aspetto veramente importante, in un discorso sull’arte, anzi, neppure importante, ma fondamentale, è l’arte stessa.
Non l’artista, che nasce, vive e muore, ma la sua opera.

Nella percezione comune, conoscere l’artista è giudicarlo. Sapere dov’è nato, dove vive, contribuisce a costruire la nostra idea che di lui abbiamo. Un’idea, per forza di cose, parziale. E forse anche pregiudizievole.
Non sapere nulla, in teoria, ci lascia soli di fronte all’opera: pura percezione. Assorbimento.

Non importa, come detto altre volte, che siamo in grado o meno di coglierne il significato recondito, o che ciò che in essa vi leggiamo corrisponda all’idea dell’autore.
Importa assorbire la visione artistica e, in qualche modo, spesso inaspettato, farla propria.

Così, l’opera di Cervone ha come centro la figura umana, trasfigurata, associata a oggetti che sono simboli, e che diviene simbolo essa stessa.
L’oggetto corpo trascende e diviene simbolo, di esistenza, di dubbio, di ossessioni private. Del nostro privato.

È una forma mentis che, come dicevo, condivido. Non amo conoscere gli artisti, adoro, al contrario, immergermi nelle opere con quanta più purezza e spontaneità possibili.
Puro fattore estetico, a volte. A volte piacevole discorso sull’esistenza.

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