
Vi siete mai domandati quanto possa essere solitaria e disperata l’immortalità? Attraversare i secoli, essendo destinati a non cambiare, mentre tutto sfuma, sbiadisce e muore, eccetto voi…
Questo bellissimo film nasce da una leggenda, o meglio, una voce che si diffuse all’epoca, nel 1922, anno in cui fu distribuito Nosferatu, eine Symphonie des Grauens di F. W. Murnau. La voce voleva che Max Schreck, l’attore che immortalò il Conte Graf Orlok, il nosferatu, il non-morto del titolo, fosse a sua volta un vero vampiro; talmente realistica, infatti, appariva la sua interpretazione che si lasciava spazio a tali speculazioni fantastiche, facendosi prendere volentieri dalla sospensione di incredulità. Si sognava ad occhi aperti, ed era piacevole tremare a causa di questa sottile angoscia.
Prometto che, prima o poi, parlerò anche di quel capolavoro, anche se è un’impresa titanica e di difficile resa.
Ma torniamo a L’Ombra del Vampiro. Sostanzialmente il suo regista, E. Elias Merhige, appassionato ammiratore dell’opera di Murnau, è partito dall’idea di voler girare un documentario che tenesse in gran conto anche dell’aspetto ludico e mitico, in qualche modo, che accompagnò le riprese

dell’originale. L’idea in seguito mutò; si pensò a Willem Dafoe quale unico attore in grado di restituire la vita al conte, di incarnare al meglio tutto il dramma insito in quella figura che sorgeva dal profondo dei secoli passati e si decise così di girare questa sorta di documentario romanzato del making-of del film Nosferatu.
Il risultato finale è piacevole, poetico e particolarmente suggestivo sotto l’aspetto scenografico.
Voglio chiarire che non è un film d’azione. Ed è opportuno farlo visto lo svilimento che la figura letteraria e cinematografica del vampiro sta conoscendo in questi ultimi anni.
Non vi aspettate inseguimenti, donzelle innamorate, paletti conficcati nel petto e incenerimenti di vampiri allergici all’argento. Se lo fate, se è questo che cercate vuol dire che non è questo film che dovete guardare e che ignorate cosa rappresenti il Nosferatu di Murnau.

Esso è il primo caso, se vogliamo, di ruberia cinematografica; ideato per aggirare la spinosa attribuzione dei diritti d’autore del libro di Bram Stoker, Dracula.
Murnau, che tanto fortemente voleva girare quel film, li aggirò cambiando i nomi dei personaggi e dei luoghi. Il Conte Dracula divenne Orlok, Mina Harker, Ellen Hutter e l’Inghilterra, la Germania.
Ma, come ho già detto, il risultato finale, salvato letteralmente dallo stesso regista, lungi dall’essere il capostipite, forse, degli adattamenti idioti del noto romanzo per il grande schermo, fu qualcosa di alieno, un’opera dal fascino arcano e magnetico; che tale apparve all’epoca della sua realizzazione e tale appare a noi, ancora oggi.
E. Elias Merhige ci restituisce intatta l’atmosfera di Berlino, pur concentrandosi sull’interno degli studi cinematografici dove operava Murnau, qui interpretato dall’ottimo John Malkovich, impegnato a girare le scene introduttive del suo capolavoro.
Murnau (Malkovich) esige, per sugellare l’impresa che si appresta a compiere, un realismo estremo da parte degli attori, tanto che ha deciso di affidare la parte più importante del film ad un attore sconosciuto della Reinhold Company, tale Max Schreck, a suo dire capace di immedesimarsi totalmente nel ruolo; talmente tanto che egli, durante il resto delle riprese vestirà solamente i panni del Conte Orlok, in uno sforzo di interpretazione sovrumano.
Murnau, in realtà, conosce la verità celata da Schreck. Egli è un vero vampiro ed ha acconsentito a partecipare alle riprese e a rendere possibile l’ambizione del regista, a patto che gli sia concesso di nutrirsi di Greta Schroeder (Catherine McCormack), la bella attrice che impersonerà Ellen Hutter nel film.
La bellezza è tutta nella superba intepretazione di Willem Dafoe, Schreck, e nel ritratto allo stesso tempo affranto e disumano che il mostro riesce a dare di sé.
La sua figura deforme, visibilmente goffa nei movimenti sembra portare su di sé il peso dei secoli. Ciò che comunica e che lo stesso personaggio afferma è che lo scorrere dei secoli lo ha privato di quasi ogni ricordo, della sua umanità, del suo vigore e del suo grande potere; e, tuttavia, egli, la creatura, è condannato a vivere per sempre in un corpo oramai avvizzito, debole, stanco e immortale.
Schreck vive nelle rovine di un’abbazia, si nutre di ratti e pipistrelli, occasionali prede della sua sete di sangue. Ritiene che il passo più toccante del Dracula di Bram Stoker sia quando Jonathan Harker soprende il Conte ad apparecchiare la tavola per la sua cena essendo ormai completamente solo, senza domestici, a stento comprendendo e ricordando il senso di quel buffo rituale, la cena, per l’appunto. Egli stesso si paragona a Titone, personaggio della mitologia greca che ricevette in dono l’immortalità, ma dimenticò di chiedere per sé anche l’eterna giovinezza finendo condannato a vivere per sempre in un corpo che invecchiava sempre più.
Nessun dandy, nessun galantuomo fricchettone con l’accento dell’europa dell’est che se ne va in giro a sedurre verginelle, ma un essere eterno che incarna in sé la disperazione e la solitudine dei secoli e l’incomprensione per il mondo che lo circonda che cambia sempre più velocemente e che egli non comprende più.
Schreck, quindi, collabora con Murnau per il vago ricordo che il viso dell’attrice Greta Schroeder sembra richiamare alla sua mente; il ricordo di un volto femminile che egli non sa dire se sia mai esistito davvero.
Murnau (Malkovich), dal suo canto, ossessionato dal suo genio e dall’idea di creare un’opera grandiosa, sacrifica in segreto la sua stessa troupe sull’altare della sua personale ossessione, permettendo al vampiro di nutrirsi a più riprese di loro, fino alla ripresa della scena finale, per il maggior realismo della quale egli ha deciso di uccidere lo stesso Schreck esponendolo alla luce el sole.
Particolarmente efficaci le ricostruzioni di alcune delle riprese originali del 1922, molte delle quali reinterpretate, ma sempre aderentissime nei dettagli, curati in modo maniacale; tanto che Merhige arriva a riprodurre gli stessi errori della pellicola originale (vedi foto).




I costumi, le scenografie, i dettagli e le trovate sceniche di allora, sono reinterpretate in chiave misterica da questa sontuosa messinscena.
E’ un piacere vedere Dafoe/Schreck aggirarsi come un’ombra sui set, conoscere nuovamente il mondo intorno a sé, cacciare gli esseri umani per soddisfare la sua sete; egli, rispetto all’originale Max Schreck, riesce più disturbante, quasi morboso quando sfoggia quel sorriso beffardo proprio di una creatura che non ha timori mortali, laddove l’altro risultava autenticamente serafico, alieno e onirico.
Inutile ribadire l’ovvio. Non si può sperare di riprodurre le atmosfere del Nosferatu di Murnau; ma questo film riesce a sorprendere, in un modo diverso, personale, persino bello, in definitiva.
Colpevolmente sottovalutato.