“Il deserto luccicava nelle onde di calore. Conan il Cimmero guardò quel panorama di gigantesca desolazione e involontariamente si passò il dorso della sua mano possente sulle labbra annerite. Se ne stava in piedi come una statua di bronzo piantata nella sabbia, apparentemente ignara del sole assassino: eppure, il suo unico indumento era un perizoma di seta sovrastato da una cintura d’oro da cui pendevano una sciabola e un pugnale a lama larga. Sulle braccia e le gambe muscolose c’erano tracce di ferite a malapena rimarginate.
Ai suoi piedi riposava una ragazza bionda, un braccio bianco abbracciava il ginocchio, contro il quale aveva abbassato la testa.”
“The desert shimmered in the heat waves. Conan the Cimmerian stared out over the aching desolation and involuntarily drew the back of his powerful hand over his blackened lips. He stood like a bronze image in the sand, apparently impervious to the murderous sun, though his only garment was a silk loincloth, girdled by a wide gold-buckled belt from which hung a saber and a broad-bladed poniard. On his clean-cut limbs were evidences of scarcely healed wounds.
At his feet rested a girl, one white arm clasping his knee, against which her blond head drooped.”
Sovrabbondanza di avverbi o no, l’impressione che si ricava dal precedente passo è forte. Da qui in poi, Conan sarebbe stato ritratto in compagnia di una fanciulla, in decine di varianti, entrando così, in quella stessa posa, nell’immaginario collettivo: l’uomo possente, con addosso vecchie ferite di recenti battaglie, un arma tra le mani, e la donna ai suoi piedi, alcune volte una compagna d’armi, altre una schiava, altre ancora una vittima di nemici sconosciuti che egli si ritrova a dover combattere, rafforzando così l’idea che sia sempre la casualità a condurre il barbaro alla lotta. Mi fa sorridere pensare a quanto di Robert Howard si sia smarrito nel corso di quasi un secolo di vita del suo anti-eroe più famoso. Frazetta si sarebbe mangiato, con le sue splendide illustrazioni, alcuni tranci della paternità dell’immagine universale di Conan, quando è ben evidente che Bob non solo se lo figurava alla perfezione, tanto da arrivare fino a vederlo in casa propria, intento a fissare minaccioso lui che scriveva, ma aveva nella sua mente, ben delineata, anche la natura simbolica del suo alter-ego e la potenza evocativa della sua immagine, futura icona di un genere letterario che egli, ignaro, aveva fondato. A lui, Bob, importava solo dei suoi racconti, e di ragionare di ere antiche e perdute e sentimenti assoluti.
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Motivi
L’Ombra che scivola (“The slithering Shadow”) apparve sul numero di Settembre 1933 della rivista “Weird Tales”. È conosciuto anche come “Xuthal of the Dusk” che, si dice, fosse il titolo originale attribuito dall’autore al racconto, e contiene alcuni dei motivi caratteristici dell’opera howardiana: la città abbandonata, le spoglie di un’antica civiltà al collasso, la creatura ancestrale che è abominio per questo mondo, l’incontro-scontro di questo microcosmo con la forza e la vitalità innata del Cimmero. Motivi che Howard riprese puntuale nel più riuscito “Chiodi Rossi” del 1936, anno della sua morte.
Margaret Brundage, autrice della copertina di Weird Tales, venne colpita da una scena in particolare presente nel testo, la violenza di una donna ai danni di un’altra donna; tanto da arrivare a decidere di raffigurarla non rinunciando alle nudità, in altre copertine della stessa rivista opportunamente mascherate con artifici grafici. L’ombra dietro le due figure è indicativa, infine, dell’altro antagonista della storia.
Una delle caratteristiche di Robert Howard è la ripetitività. Cosa che ho scoperto di avere in comune. Forse anche a causa della pubblicazione “a puntate”, i suoi racconti si ripetono nello stile, con medesimi verbi e costrutti a vicinanza proibitiva e, come già detto più volte, la ricorrenza dei temi. Caratteristica che, lungi dal rappresentare un difetto, è in realtà punto di forza, almeno per lui. Sua abilità è, infatti, riuscire a costruire storie coinvolgenti ed efficaci basandosi su variazioni minime. A personaggi ricorrenti nei ruoli e nella natura, a dettagli identici o simili, egli rispondeva donando loro respiro e atteggiamento differente, sottile ma sostanziale, tale da rendere familiare e rassicurante al lettore il contesto, da metterlo a suo agio con la promessa di un’altra storia da amare e, magari, da preferire rispetto a una seconda o a una terza, e pur tuttavia, riuscendo a serbare intatto l’elemento essenziale, la sorpresa, a garantire il gusto della lettura.
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Il Deserto
Si comincia da Conan e dalla sua occasionale compagna, Natala. Il breve antefatto li vuole a vagare nel deserto in preda alla sete e agli stenti dopo la sconfitta dell’esercito saccheggiatore di cui facevano parte. Conan mostra la sua natura di anti-eroe soprattutto in queste prime righe, quando concede alla ragazza di consumare l’esigua riserva d’acqua e medita di ucciderla con un fendente della sua spada per risparmiarle ulteriori giorni di pazzia e sofferenza.
Immagine di grande potenza, non a caso la prima tavola del fumetto omonimo del 1977 a cura di Roy Thomas, John Buscema e Alfredo Alcala, rispetta pedissequamente la narrazione howardiana.
La città sorge nel riverbero del calore all’orizzonte. Inattesa, svolta gratuita, deus ex-machina, non importa cio che è. Essa è lì, costruita con pietre lucide e verdastre, con i suoi bui anfratti rischiarati da strane pietre luminescenti, identico materiale di ogni altra città perduta o rovina del continente hyboriano. E rappresenta la salvezza momentanea e l’inizio di una nuova avventura. La premessa di una serializzazione che avrebbe fatto stragi con l’avvento della televisione.
Nessuno si illude che la città sia un posto tranquillo. Il fatto di sorgere nel nulla è artificioso e quasi sicuramente essa è soggetta a malefici. Eppure non solo Conan e Natala, ma anche il lettore vuole entrarvi disperatamente. Sono tutti lì per quello.
I due, avvicinandosi a essa, entrando, iniziando a esplorarla, sono attaccati da una guardia che, incontrata istanti prima all’ingresso e creduta morta, si è rialzata costringendo Conan a ucciderla per difendersi.
“L’Ombra che scivola” non è il più riuscito dei racconti howardiani, ma è senz’altro il più popolare, da intendersi con riguardo alla fruibilità dei temi trattati, quello che più si adattava alla resa a fumetti, ricco com’è di azione senza tregua e di espedienti, leggasi forzature, narrativi che donano paradossalmente unità e continuità a una storia in verità deboluccia.
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La Città
Gli edifici di Xuthal, la città perduta, possiedono una peculiare qualità, sono comunicanti, al loro interno, gli uni con gli altri, tramite portoni, corridoi, passaggi segreti. Sono anche abitati dai nativi, gente appartentente a una razza evoluta, ma decadente, che preferisce trascorrere i giorni nel sonno visionario indotto dall’assunzione del Loto Nero, un fiore che è anche la fonte della droga più potente dei Regni Hyboriani.
Conan è più barbaro e istintivo che mai, pensa solo al momento presente, e il momento impone di sfamarsi e sopravivvere a qualunque costo, anche se dovesse uccidere tutti gli abitanti. Natala è preda della paura, della morte all’inizio e, successivamente, di questa città di spettri.
Thog, l’ombra che scivola, è una creatura ancestrale alla quale gli abitanti di Xuthal attribuiscono una natura divina e che lasciano libera di aggirarsi per i palazzi e di nutrirsi dei dormienti che esso, di volta il volta, trova lungo la strada quando si muove spinto dalla fame. Quegli uomini, ormai, sono troppo fiacchi, decadenti e impauriti, persino per tentare di opporsi all’orrendo fato che li aspetta.
Thalis, una stigiana ospite della città, tenta il barbaro con profferte amorose e arriva a rapire Natala e a torturarla perché lei è l’unico ostacolo all’avere Conan tutto per sé. Come la stessa Thalis dichiara all’inizio: “Nella sua follia deve essersi scontrato proprio con chi voleva evitare.” riferendosi a una delle vittime di Thog; per contrappasso, anche lei finisce, per la sua stessa imprudenza e avidità, per attirare l’interesse del dio strisciante.
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Bisogni
Ma Thog, la creatura, il mostro, si rivela, a dispetto dei suoi appetiti terreni, molto più simile a un dio di quanto lo stesso Conan si aspetti. Come sempre la situazione precipita rapidamente. Il barbaro e Natala si sono introdotti in un reame in equilibrio precario e ne hanno cagionato il rapido crollo. Elementari sono i bisogni che spingono all’azione tutti i protagonisti di questo breve racconto e tutti, allo stesso tempo, primari: la fame, l’odio, la paura, l’appetito sessuale, l’invidia. Conan e la sua compagna sono l’oggetto di queste esigenze, persino per la divinità del momento. Il Cimmero l’affronta in una lotta dalla quale esce quasi morto. A Natala, personaggio davvero simpatico e ben costruito, che avrebbe meritato un futuro, ma che resta una meteora, il compito di rimetterlo in forze sfruttando un altro deus ex machina, un filtro guaritore, frutto del genio del popolo di Xuthal.
“L’Ombra che scivola” si rivela avventura di cappa e spada, infarcita di simbolismo involontario. Priva di particolari spunti di riflessione e che incarna e tramanda più di ogni altra l’immagine universale di Conan il Barbaro, dominato dal fato, che irrompe nelle vite altrui e cozza contro di esse uscendone sempre vittorioso. Archetipo.
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