Parlando di narrazione, letteraria come cinematografica, un altro dei temi che io considero fondamentali è: lo spirito dell’uomo.
Spirito che, nella mia concezione personale, non esalta i grandi ideali, quelli che nell’Ottocento facevano muovere nazioni, e milioni di morti e, nel Novecento, appiattirono fino a schiacciare l’idea di umanità come strumento di propaganda per un destino ultimo e storico (quello della nazione ariana), causando decine di milioni di morti.
Il vanto, invece, di questo spirito dell’uomo è il microcosmo che ogni essere umano rappresenta e, di conseguenza, la spinta vitale che sottende a ogni sua azione.
Prendo a esempio l’ultimo, nell’ordine di tempo, film di Peter Weir.
Vedete, è estremamente semplice fare una lettura politica di The Way Back. Semplice e superficiale.
Potrei affermare che The Way Back è il film apolitico per eccellenza, invece.
Tratta della fuga lunga 4.000 miglia, di una manciata di prigionieri da uno dei gulag staliniani. Lì c’erano arrivati per svariate ragioni: furto, omicidio, essere americani, sospetto spionaggio, fare l’attore o professare una fede religiosa.
Insomma, i gulag erano il posto in cui Stalin, che di nome faceva acciaio, spediva tutte le possibili rotture di coglioni in forma umana.
Ecco, siamo di fronte, nel decennio che va dal 1939 al 1949 del XX secolo, a eventi estremi della natura umana. Eventi, come accennato, capaci di smuovere la vita dell’intero pianeta, e che si ramificarono fino a influenzare la vita quotidiana di ciascuno di noi, piccole creature.
Tale contrasto, alla base della narrazione di Weir, è costantemente rappresentato e dalle inquadrature, che spesso mostrano queste sette figure umane che attraverso grandi spazi, le infinite distese di Madre Russia, ma soprattutto attraverso la coscienza, il ricordo, il miraggio di uno dei protagonisti, che nella disperazione di dover proseguire la propria marcia, si aggrappa a un piccolo ricordo personale, quale quello della mano che si allunga per afferrare un tozzo di pane, sul davanzale della finestra della propria casa.
Una casa che non c’è più.
Un rifugio della mente.
Ed è quello, lo spirito dell’uomo.
Alcuni, pochi uomini, assurgono a tale potere da poter decidere i destini di milioni di simili su una carte geografica, ed è di costoro che usualmente si ama parlare.
Vengono definiti eccezionali, non per le loro qualità intriseche, ma perché eccezionale, diverso, unico è il loro punto di vista.
Ma c’è la maggioranza silenziosa, che le apocalissi le vive dentro. E che, vistasi privare della libertà, totale e assoluta, finanche del pensiero, sceglie di non sottomettersi, di affidare la propria esistenza, il bene più prezioso, alla speranza di una fuga assoluta.
Come lasciare il vecchio mondo per il nuovo, selvaggio e sconosciuto.
Il principio è combattere, come sempre, con le armi a disposizione. Impensabile pensare di poter contrastare Stalin, o Hitler, o quella corrente di follia che stava incendiando l’Europa, l’Africa e l’Oceano Pacifico, nonché i mari teatro di battaglia tra sottomarini.
A pochi, semplici uomini non restava che fuggire, lasciandosi tutto alle spalle.
Che non è una fuga disonorevole, ma l’affermazione, fortissima, di un’individualità.
È dirompente come la foto di quell’uomo che, solo tra la folla, si rifiutò di salutare a braccio teso.
Altro elemento a sostegno di questa teoria è la scena dei graffiti rupestri. Un disegno che uno dei fuggiaschi traccia su una parete rocciosa, indicando simbolicamente il numero di morti causati dalla falce e martello, la fine del pensiero.
Qualcuno, come sottolineato da un compagno di viaggio, millenni dopo l’avrebbe ritrovato, quel disegno, e l’avrebbe considerata testimonianza storica dello spirito dell’uomo. Quello incoercibile, quello che ci ha guidato nei millenni, a lasciare traccia di noi stessi, in quanto civiltà e in quanto individui.
Valka, il personaggio interpretato da Colin Farrell è invece l’opposto della marcia dei reduci. È l’uomo sconfitto, imprigionato pur essendo libero fisicamente. L’unico che sceglie di restare in trappola, di non continuare la marcia.
È quello che porta disegnati sul petto i profili di Lenin e Stalin, come protezione, perché “grandi uomini”.
Ora sappiamo che quel tipo di tatuaggi erano molto diffusi nelle carceri russe, ma non per cieco idealismo e servilismo, ma per ragioni pratiche: era reato nell’Unione Sovietica distruggere le effigi dei padri fondatori. Dunque, sparare a un uomo significava distruggere i volti sacri.
Divieto subito superato dalle guardie, che presero a giustiziare i prigionieri con un colpo alla nuca, certo. Ma che ha una sua forza aneddotica.
E tuttavia, nel film non viene fatta menzione di questo, ma unicamente di uno stanco e incomprensibile attaccamento di un uomo verso un regime che gli ha tolto tutto, ma che lui non vuole abbandonare, per paura.
Fuggire, quindi, a rischio della vita, per assaporare la libertà, persino mentre si è seduti nel mezzo di un’oasi nel deserto, a rischio costante della vita. Tutto pur di ritrovare un po’ di silenzio, per lasciarsi vivere per poche ore, da creature nate libere.