Anni fa me ne uscii con la Storia del Cesso.
Un articolo che lasciò il segno. E che è ancora oggi tremendamente attuale. Ogni tanto qualcuno lo rispolvera e, chissà, magari è stato anche copiato, non ne ho idea, è passato tanto di quel tempo. Ma questa è un’altra storia.
La Storia del Cesso è, per riassumere, la storia della lente deformante applicata alla scrittura. O agli scrittori, o a entrambi.
Lo scrittore o sedicente tale ama spacciarsela: mostrare ai poveri stronzi che campano d’altro che lui invece campa con le lettere, coi romanzi, le saghe in tre volumi (e quattro film, si spera), e che ha una vita magnifica, fatta di viaggi, emozioni, bevute con amici meravigliosi e, non solum sed etiam, solitudine, quella bella, necessaria, quella passata al computer a battere sulla tastiera. Questi ultimi, capiteli, sono momenti di grande sofferenza, in cui, per lo più, lo scrittore comunica col proprio demone che gli sussurra le parole grandiose da stendere in romanzi “da leggere tutti d’un fiato”, recensiti su Amazon da eserciti di stellinari, prezzolati recensori assunti per apporre cinque stelle e tre righe di recensione fasulla.
Di che vi meravigliate? L’ha fatto anche Proust.
Di chi è la colpa? Forse dei bohémien, forse della stampa dell’epoca, e poi del cinema e della TV. E di Instagram.
Qual è la colpa?
Averci trasmesso l’idea che lo scrittore sia un parassita che tira a campare, afflitto da qualche dipendenza e scontroso, irascibile, misantropo, che scopa in giro, che ha relazioni sentimentali nocive, ma che si mantiene perché, tra una vomitata e l’altra e dormite olimpioniche, riesce a mettersi a sedere alla macchina per scrivere e a creare cose grandiose: letteratura.
Quei passi che di solito nei film vengono letti dalla voce narrante, che fanno sognare i coprotagonisti e che, sempre di solito, sono scritti malissimo.
Lo scrittore romantico era un tossico.
Quello contemporaneo d’altronde è un salutista dalla barba ben curata. Dispensa sempre consigli utili e ha una parola gentile per tutti.
Cambiano i livelli di colesterolo e glicemia, ma non la sostanza.
Mai una volgarità, oggi, mai un capello fuori posto. O una scoreggia. Oggi lo scrittore è un fotomodello saltimbanco impegnato nel sociale e nelle fiere. A vendere i propri libri. E ha tanti colleghi gentili sempre disposti ad aiutarlo.
Sì, poi c’è King. Che fa il miliardario. È un miliardario. E che ha creato altri standard, irraggiungibili per la maggior parte dei mortali. Quindi io lo terrei da parte, perché costituisce l’eccezione, più che la norma, persino nella fantasia. E gli consiglierei di stare lontano dai social network, che ti si ritorcono contro in in cinque minuti, in tempi di ipersensibilità e overreaction.
Lo scrittore, oggi, continua a essere una menzogna creata ad arte per far sognare.
Non importa cosa scriva, o se importa è secondario. L’aspetto fondamentale è l’immagine.
Molti scrittori all’epoca di Hemingway ce la facevano davvero: campavano vendendo pezzi alle riviste.
Gli anni della Guerra, in cui in qualche modo ci si riusciva.
Era la storia del pugile, di Rocky, con le dovute differenze. È la storia del tipo che vive nella miseria, un po’ per colpa sua, un po’ a causa della società, e che ce la fa, con le sue forze e con l’amore di una donna che lo capisce e lo sostiene. La storia del Joker, solo che lì la donna è immaginaria e il mondo è davvero, davvero kattivo. E c’è voglia di meschina vendetta mascherata da riscatto sociale.
È la storia del social ai nostri giorni, Instagram in particolare. Ma al posto del dannato che si riscatta oggi il modello è il vincente.
Sui social chiunque sfoggia una vita perfetta, deprivata di ogni sfiga, mal di denti, capelli fuori posto, bollette da pagare, posti di merda in cui vivere. La maggior parte degli influencer, e dei sedicenti scrittori (e quindi aspiranti influencer), ha uno studio ordinatissimo, che fotografa con insistenza, magari con accanto una pila di libri scelti oculatamente, una tazza di caffè con richiami nerd, action figure mediamente rare e costose, la tastiera del PC (wireless) e un moleskine, perché si sa, la carta ha ancora il suo fascino.
Non sei tu, il problema. O i tuoi gusti. È quel libro che fa proprio schifo. Tu ti sei solo invaghito dell’ennesima storia del cesso, ci hai creduto, ma adesso la magia è finita.
Se proprio vuole esagerare, il sedicente scrittore al posto del freddo PC mette in posa la sua macchina per scrivere d’epoca, coi tasti piatti. Ognuno di noi ha un’Olivetti in soffitta a prendere polvere, eredità dei nostri nonni, ma che è utilissima alla recita, una volta ripulita.
E così, di epoca in epoca, l’idea fantasiosa e del tutto avulsa dalla realtà che lo scrittore sia un essere dalla sensibilità superiore che ce la fa nonostante demoni e vizi continua a sopravvivere. Demoni e vizi non ci sono più, fagocitati da centrifughe multivitaminiche e sessioni di pilates e simpatia gioviale: socialità, la chiamano.
Fa sempre parte dell’immaginario, specie in un’epoca in cui non legge più nessuno, dove quindi è necessario vendere l’immagine dello scrittore più che lo scritto, e il libro (e il PC per scriverlo, e le tazze nerd per comporre i quadretti) è un oggetto di design che va collezionato più che letto.
Il danno? È ovvio: trasmettere un’idea distorta della realtà, dove non vengono citate la fatica, la disciplina, l’ansia di non arrivare a mettere insieme pranzo e cena (sì, caro Henry, ancora oggi si fatica per mangiare), le antipatie per i colleghi a volte idiosincratiche, a volte meritate (ce ne sono, ce ne sono, chiunque vi dica di no sta mentendo), le invidie, le ripicche, le schermaglie da social network, i like negati, i contenuti ignorati, i ritardi nei pagamenti delle royalties, la scarsa professionalità e tutte le brutture che caratterizzano l’ambiente della narrativa. Che sono la narrativa, ma che quelli che la narrativa la fanno non vi racconteranno mai. È il sistema, baby. Se non ne fai parte, sei fuori.
La Storia del Cesso è sempre attualissima, quindi, solo che muta nel tempo e a seconda dei media a cui viene affidata. Immortale, come le malattie veneree, come quel senso di insoddisfazione che ti piglia dopo che hai finito di leggere li libro di un tizio venduto come il dio della letteratura sceso in Terra e che a te ha fatto schifo. Molto probabilmente perché fa davvero schifo, ma è una cosa che non conviene dire. A nessuno.
Non sei tu, il problema. O i tuoi gusti. È quel libro che fa proprio schifo. Tu ti sei solo invaghito dell’ennesima storia del cesso, ci hai creduto, ma adesso la magia è finita.
Resta il senso di insoddisfazione, e una realtà passivo-aggressiva, e tacitamente ostile alla verità. E incomprensibile. Dove viene premiata l’immagine e la narrazione di sé. E l’amicizia diplomatica, che tanto amicizia non è.
Ma lo scrittore scrive. È questo che dovrebbe fare.
Per cui, o i pazzi siamo noi, o c’è qualcosa che non funziona, e che continua a non funzionare nonostante tutto.
Ah già, sono tornato. Ben ritrovati.