Antologia del Cinema

L’invenzione di Morel

Si inizia con la risposta all’ormai annosa questione: perché non il cinema italiano su questo blog?
Perché un tempo, nel 1974, un tale chiamato Emidio Greco, regista, era capace di realizzare L’Invenzione di Morel. Di rischiare, registrando su nastro, traducendolo in immagini, un libro per pochi, “La invención de Morel” (1940) di Adolfo Bioy Casares, per alcuni il libro perfetto. Di proporlo al pubblico inconsapevole e ignaro, ben disposto allo stupore e alla sopresa, all’incertezza, rischiando di prendersi secchiate di merda addosso, accettando in toto, come un eroe dominato dalla pietas, la fatalità. Quell’ignoto che c’è dietro ogni scelta di questo tipo.
Piacerà, questo film? Oppure no?
Non era dato saperlo.
Il marketing ha stravolto questo concetto, facendo trionfare il paradosso, quello del prevedere, come gli astrologi, il futuro del gradimento pubblico, ed elevando a religione la commercializzazione. Confezionando, per le grandi masse, ciò che si pensa la massa debba volere, o meriti. Una strana legge del contrappasso capovolta e denaturata.
Non mi dilungherò più cercando di spiegare il motivo per il quale odio il cinema italiano, così com’è fatto ora. Odio questo cinema e tutti coloro che vi partecipano.
Si tratta, com’è ovvio, di una generalizzazione, così come di un odio generico, non indirizzato verso nessuno in particolare. Esso è, piuttosto, risentimento verso quel cinema delle masse che io avverto essere estraneo e sempre più autoreferenziale, che si rifiuta di creare, ma si limita a riscaldare concetti mutuati dai manuali più in voga: quelli che vogliono l’arte alla portata di tutti. L’arte minuta, come le copie d’archivio. Tante stampe di nessun valore.
Il cinema, nella fattispecie un film, è eterno. Come è l’arte.
Odio il cinema italiano perché non mi dà più arte da un pezzo, ma solo manuali sull’arte. Solo copie minute. Solo teoria, ma nessuna passeggiata nel giardino delle muse.
Di contro, amo il cinema italiano, quello capace di produrre invenzioni narrative come quella di Morel.

***

[buffo dirlo quasi quarant’anni dopo, ma… l’articolo contiene anticipazioni]

È arte quella che si può permettere mezz’ora di silenzio, di immagini curate e parimenti amate, di un’isola pietrosa, mediterranea, con pietre bianche e lisce. E una villa fiabesca, simile, nella natura intrinseca, a quella Fortezza nel Deserto dei Tartari, fatta d’attesa. Il naufrago (Giulio Brogi) vi si aggira spaesato, vi è giunto per motivi terreni, è un ricercato che ha trovato scampo, chissà come, chissà quando, su una scialuppa, ed è stato accolto da questo luogo abbandonato.
Un luogo dove regna la quiete e tuttavia scandito da strani ritmi. Dove appaiono dal niente, come fossero stati lì da sempre, strani individui impegnati nella dolce vita, a godere una vancanza di piaceri e ozio, che danzano al ritmo di canzoni degli inizi del Novecento, vecchie come i vestiti che indossano.
Il naufrago li teme. Ha paura che possano denunciarlo.
Ma il suo vero terrore è quello di impazzire. Gli sembra, infatti, che quegli individui singolari stiano ripetendo, in un circolo vizioso, le stesse azioni, gli stessi dialoghi, le stesse passioni.
Una donna in particolare, una dea, egli osserva compiaciuto. Faustine (Anna Karina), così gli è sembrato si chiami. Ella suole ogni giorno recarsi sulla scogliera a vedere il tramonto sul mare.
A lei il naufrago sceglie di rivelarsi. Di rivelare ciò che ha fatto. Superando timore e angoscia.
Eppure, con stupore, egli s’avvede che nessuno gli presta attenzione. È un invisibile.
Mentre tutta l’isola intorno a sé è impegnata a riprodurre la vita.
Morel (John Steiner) è il nome di un distinto signore del gruppo. È un inventore. E la sua invenzione egli ha innescato su quest’isola.
Morel ha inventato la via per l’immortalità. Un’immortaltà parziale, certo, tortuosa e destinata, orribilmente, a ripetersi per l’eternità.
La sua invenzione registra la vita, non la crea. Si limita a catturarne l’essenza, la sua energia, sottraendola a quella del mondo reale. Egli sostiene che le percezioni così accumulate, ricreino anche la coscienza e la consapevolezza di quei momenti, senza poterne creare di nuovi.
Ciò che per quel gruppo è stato un periodo di gioia senza fine, ma anche di delusioni, di passioni disattese, di speranze, vivrà per sempre grazie alla sua macchina.
Il naufrago comprende la verità, assistendo a questo infinito spettacolo di momenti ripetuti.
A lui la scelta. Se condividere o meno quel perverso meccanismo di stampa. Sperando che l’avvenuta registrazione di sé, riesca, in quei brevi istanti di autocoscienza, a entrare in contatto col simulacro di Faustine. L’immagine di donna che nel frattempo egli ha imparato ad amare.

***

“L’invenzione di Morel” non è un film semplice, d’immediata comprensione e gradimento istantaneo. È di sicuro coraggioso. Appartiene a quei film in cui tutti, dal regista all’ultima delle comparse, sono al servizio della storia narrata, dell’idea. È anche un film pericoloso: i lunghi silenzi che si concede, come sappiamo, finiscono dritti in braccio a Morfeo. Ma si resiste. E ne vale la pena. E si finisce col rivedere volti noti come quello di John Steiner (Morel), un cattivo d’eccezione per il cinema italiano, magro, affamato, uno di quelli di cui diffidare, e inediti come Anna Karina (Faustine), di una bellezza aristocratica, in grado di nobilitare anche degli stracci, nel caso avesse voluto indossarli; volti che immortalano un cinema fantastico come non è più.
Una degna conclusione, quel non essere più, degli stessi temi affrontati nel film. L’isola è un ricordo di un modo di fare cinema reso eterno dall’invenzione di Morel, condannato a ripetersi sempre uguale a sé stesso, fino a quando un naufrago qualunque, invaghitosi dell’immagine della bellezza che fu, non deciderà di intromettersi, registrandosi sopra, salvo poi capire l’inutilità del suo gesto e tentare di distruggere le ambizioni e i bei ricordi di altre vite.
Cinema e metacinema. Oramai storia.
Come al tempo in cui si pensava che la fotografia potesse rubare l’anima. E non a caso si è giunti ora a considerare l’anima umana come la risultante degli impulsi elettrici, l’impronta, stipati nel nostro cervello. Se sia possibile o meno catturare i nostri ricordi, la nostra essenza e conservarla, e soprattutto se sia possibile che questa essenza, custodita in qualche luogo, abbia coscienza di ciò che eravamo un tempo, non è dato saperlo.
Ma questo è senz’alcun dubbio un motivo eccezionale intorno al quale creare un’opera d’arte. Un motivo coraggioso, con un’ampiezza d’intenti che potrei definire assoluta. Intorno a esso si muove la fantascienza pura, quella filosofica.
A esso versano tributo tutte quelle serie odierne che si pavoneggiano di concetti già vergati una settantina d’anni fa.
“Battlestar Galactica”, “Lost” e tutti gli altri, sono tutti debitori di quest’invenzione.

***

Io ci sono nato, in quel periodo in cui si osava sperimentare. E sono cresciuto in case [la mia famiglia s’è trasferita spesso, quand’ero piccolo] arredate come quella che si vede in questo film. Con poltrone fatte di strisce di pelle e gambe di metallo lucido, lampade composte da linee essenziali. Un arredamento snello, concettuale. Spartano, ma elegante. Fatto di chiaroscuri netti e di plastica di colori pastello e luci calde e dischi di vinile. E, soprattutto,  di tanti libri. Senza dimenticare “la merda d’artista”.
I sessanta e i settanta ci campavano con la concettualità. E “Le Attese” e il loro concetto spaziale, riassumevano, nelle loro cesure, il senso di riflessione e smarrimento di un mondo sull’orlo della demistificazione, della rivoluzione scientifica e tecnologica e dell’autodistruzione.
Il ricordo, in effetti, è eternità. E il cinema era sì, le città violente e a mano armata e la commedia scollacciata, violenza fantascientifica e devianze sessuali; era  voyeurismo all’ultimo stadio. Ma il cinema era anche concettualità e purezza d’immagine, come l’arredamento, come l’arte alla Biennale di Venezia, quella, per capirci, presa amorevolmente per il culo da Alberto Sordi. Arte come non se ne vede più e, quel che è peggio, come non si riesce più a concepire.

Altri articoli in Recensioni Film

Bonus Tracks:

Tea For Two

I want to be happy

Autore e editor di giorno, talvolta podcaster. /|\( ;,;)/|\ #followthefennec
    • 14 anni ago

    “Dove vai in vacanza” è stupendo!!! 🙂

    • 14 anni ago

    Quelle due canzoni risalgono a “quando ero giovane”, le ricordo con molto piacere.
    Scherzi a parte, bell’articolo e anche profondo. Credo di aver colto tutti i numerosi riferimenti, ma qualche link in più non avrebbe nuociuto.
    MUAAHAHAHAH 😛
    arrivederci

      • 14 anni ago

      No, anzi scusatemi se non ho inserito collegamenti esplicativi, ma scrivo di getto e quindi non ci bado molto.
      Eccoti qualche chiarimento:

      pietas intesa come devozione e cieca fiducia verso gli dei e il fato

      La Merda d’Artista è un’opera di Piero Manzoni del 1961

      Attese – Concetto Spaziale è un’opera di Lucio Fontana (foto, 1965)

      “Dove vai in Vacanza?” (1978) è il film a episodi in cui Alberto Sordi si prende gioco dell’arte contemporanea

      Le due canzoni, “Tea for Two” e “I want to be happy” appartengono al musical “No, No, Nanette” (1925)

      ciao 😉

    • 14 anni ago

    Concordo amaramente,con ciò che avete scritto tu ed Alex,amaramente perchè basta vedere il vuoto che abbiamo attorno rispetto al passato.
    Una volta il cinema Italiano era un esempio nel mondo.Specialmente,per il cinema di genere:i vari Freda,Bava,Fulci sono ancora oggi studiati nelle scuole di cinema di tutto il mondo e d i loro film hanno ancora numerosi estimatori,Bava poi con quattro soldi ti faceva effetti speciali che neanche la cgi oggi riesce a rendere.Perfino la Rai in quegli anni faceva sceneggiati come IL SEGNO DEL COMANDO o RITRATTO DI DONNA VELATA o ancora A COME ANDROMEDA,di chiaro segno fantastico.
    Gli effetti si vedono ancora,Alexandre Aja in Haute tension,ha chiamato Giannetto De Rossi,e considerando quanto siano protezionisti i francesi,questo vuol dire molto.
    Ritengo che questo patrimonio si sia voluto perdere per motivi che in fondo conosciamo tutti.
    Però che peccato ragazzi,che peccato…

      • 14 anni ago

      Purtroppo degli sceneggiati RAI dell’epoca non ho una grandissima esperienza. Davvero troppo piccolo per starli a guardare. Però immagino che rientri nel periodo cui accennavo nel post. Si sperimentava di più, si creava di più. Oggi è l’epoca del format, ovvero la compravendita dell’idea, solo una. E il resto?

    • 14 anni ago

    Sono ammirata. 😉

    • 14 anni ago

    “La commedia è la nostra Alamo” è magnifico. 😀
    Inutile dire che sono concorde. Non che disprezzi Villaggio, Banfi & Co., chiariamo. È che quelli sono stati unici e perfetti per quegli anni. Ci hanno provato di recente a rifarsi vivi, spinti dai soliti geniacci, quelli convinti di sapere come vanno le cose, e vedi con che risultati, vergognosi, ahimé, quanto scontatissimi.

    Ma film di questo calibro ho dovuto scoprirli da solo, perché tutti quei fighi sedicenti esperti di cinema non ne hanno mai parlato.
    Giustamente, è meglio dare spazio alle “Crispy News”, a quelli che non si domandano più nulla, ma subiscono e basta.
    Tralasciando l’horror, per il quale eravamo maestri indiscussi all’estero, perché profeti in patria giammai.

    Vi lascio per qualche ora.
    A più tardi.

    😉

    • 14 anni ago

    Come tua consuetudine, ci hai regalato un articolo coi fiocchi!
    Su L’invenzione di Morel consentimi di non dire nulla, perché è uno di quei film perfetti così, capolavori per chi li ama, incomprensibili per chi li odia.

    Riguardo al cinema italiano, inutile negare il momento nero che perdura da quasi un ventennio. Ma è una crisi che colpisce anche gli altri campi artistici, come musica e narrativa. Il fumetto poi è morto.

    Torniamo al cinema.
    Noi eravamo bravi a fare le commedie e gli horror truculenti. Abbiamo disimparato TUTTO.
    Gli horror italici non esistono nemmeno più, mentre le commedie sono sempre più indirizzate al pubblico che io definisco “di MTV”. E che personalmente odio con tutto me stesso.
    Ci siamo persi per strada Verdone, AG&G, Villaggio… Ora produciamo solo cazzate, che valgono assai mai di una qualunque puntata di 45 minuti di Lost o Fringe.

    E cito la commedia perché è il genere in cui, in un certo senso, abbiamo tenuto più duro. La nostra Alamo. Fantascienza, horror etc etc sono stati conquistati da un tempo che mi pare infinito.

    PS: però l’altro giorno ho visto, per caso, “La doppia ora”, un thriller/noir passato sotto assoluto silenzio, eppure degno di attenzioni. Non si va oltre il 6, ma potrebbe essere un segnale interessante. Ovviamente, come ho già detto, non ne ha parlato nessuno.

    • 14 anni ago

    Un film sui licantropi con Muccino… altro che B-Movie! :p

    • 14 anni ago

    Ho visto un bel po’ di malinconia in questo post. O sbaglio?
    Per quanto riguarda il cinema italiano, hai scritto: “odio questo cinema e tutti coloro che vi partecipano”. Peccato. Avevo una mezza idea d’iniziare la mia carriera d’attore in qualche roba di Muccino XD

      • 14 anni ago

      Sì… è che ho la sensazione che questo modo di vivere che ci hanno imposto, fin troppo casual, ci stia privando di qualcosa di bello.

      Il cinema italiano mi svilisce e mi avvilisce. E più lo fa e più m’incazzo.
      Per anni, da ragazzo, sono stato convinto che la fantascienza fosse un genere estero, tanta era la merda politico/melodrammatica/sociologica-del-cazzo che passava nei cinema nostrani e nelle televisioni.
      Ti rendi conto?
      Per anni ho creduto che la filosofia, l’arte e tutto ciò che c’è di bello al mondo fosse prerogativa straniera, perché l’Italia, quella vera, era morta con Caravaggio.
      E tutto questo perché?
      Se lo domandino i deficenti che curano la divulgazione culturale. È ora che si rendano conto che sono inadatti a tale lavoro.
      Il cinema è solo il fenomeno di generalizzazione più evidente e becero. Peggio della letteratura. Ma forse anche lì stiamo conciati per le feste.

      Se ci sono autori validi italiani, restano, a causa di questo modo scioccamente “elitario” di intendere l’arte, dei perfetti sconosciuti.
      Ecco cosa stiamo perdendo: l’arte.

      E vadano affanculo i sedicenti registi che girano oggi.

      E tu, se vuoi girare un film sui licantropi con Muccino… non sarò certo io a fermarti. Al massimo lo boccio su queste pagine… 😉