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Leiber e la bella scrittura

Sono tra i felici possessori del tomo di Fritz Leiber, degli Oscar Vault. Un must have.
Quello di cui ci apprestiamo a parlare è un passo tratto da Le donne delle nevi.
Perché voglio parlare della bella scrittura.
Cos’è la bella scrittura?
È quel momento in cui l’autore ti mostra la tecnica, la sfoggia senza uscire dalla storia, anzi, restandone ancorato.
E più Leiber resta saldo nella mente di Fafhrd, più sfoggia la bella scrittura.
Poi, certo, Le donne delle nevi è meraviglia allo stato puro, dove ci sono screzi tra barbari e mercanti, dove i dialoghi fervono, dove si usano i razzi e gli sci, e vengono ammazzati uomini in discesa libera, sull’onda della sola energia cinetica. E dove le donne sono reali, e pulsano e le loro voci sono magnifiche e dissonanti: vivaci, in collera, estasiate, sognanti, impaurite. Sono vere.



“Quando entrò in casa, si sentiva di nuovo come uno spettro, e come uno spettro non fece rumore. Gli odori familiari lo confortarono fastidiosamente e contro la sua volontà: odori di carne, di cucina, di fumo freddo, di pelli, di sudore, di vasi da notte, e il lieve puzzo dolce acido di Mor. Attraversò il pavimento elastico e, completamente vestito, si stese sul giaciglio di pelli. Era mortalmente stanco. Il silenzio era profondo. Non sentiva il respiro della madre. Pensò all’ultima volta che aveva visto suo padre, bluastro e con gli occhi chiusi, le membra spezzate ricomposte, la sua spada migliore snudata al fianco, le dita color ardesia assestate intorno all’elsa. Pensò a Nalgron, che adesso giaceva nella terra sotto alla tenda, ridotto a uno scheletro dai vermi, la spada arrugginita e nera, gli occhi aperti… occhiaie che guardavano verso l’alto, attraverso la terra compatta. Ricordò l’ultima volta che aveva visto suo padre vivo: un alto mantello di pelli di lupo che si allontanava, rapido, seguito dal crepitare degli avvertimenti e dalle minacce di Mor. Poi gli tornò in mente lo scheletro. Era una notte da spettri.”



La bella scrittura. Che passa dall’ambiente alla paura, ai ricordi, all’angoscia e torna alla notte agitata, in una manciata di righe, restando sempre nella mente del protagonista.
La bella scrittura si sta perdendo. Del resto, Fritz Leiber è morto.
No, non è estinta, è stata solo messa da parte, in favore della semplicità. E di teorie sempre più strampalate che hanno il sapore di dogmi.
E non mi troverebbe nemmeno troppo distante, questo concetto, da amante della semplicità. Tuttavia, dal momento in cui si sceglie di semplificare così tanto da impoverire il linguaggio per andare incontro alle limitate capacità della maggioranza, ecco, è lì che si sbaglia.
Evitare di usare termini inconsueti, perché sconosciuti al pubblico, o costruzioni appena più complicate, o ricche, per non “far perdere i lettori”. Ecco il peccato originale.


Così muore la bella scrittura.
Sacrificata in nome della storia, invero non troppo brillante, a volte, insieme alla personalità stessa dell’autore.
Un autore vale l’altro. Le trilogie, invece, quelle si vendono. Chi le abbia scritte non conta.
L’autore non deve mostrarsi, deve essere presenza impalpabile al servizio della storia. E dell’editore.
Balle.

Gli odori. Io prediligo gli odori. Esattamente come nel mondo reale, quando un profumo ci riporta alla mente i ricordi, la scrittura degli odori è capace di farci immergere nella pagina.
Qui Fafhrd torna in casa, dopo quella che potremmo definire una giornataccia. C’è un’intera società che lo soffoca, e un’intera civiltà da scoprire. Ma è difficile lasciarsi la vita alle spalle. È allo stesso tempo ciò che più detestiamo e ciò che più temiamo di abbandonare. Perché gli affetti, i ricordi, sono legami potenti, catene. E le catene fanno il loro lavoro.
Carne, cucina, fumo freddo. Quel fumo freddo è quell’odore penetrante che emana un falò spento, la cenere, che impregna ogni cosa. Pelli conciate e poi sudore e vasi da notte.
È casa. Una casa antica di un mondo antico, dove non ci sono le stanze da bagno. Dove tua madre è una presenza che s’annuncia al naso. Dolce e acida. Amata e detestata, quasi temuta, perché padrona di arti arcane e pericolose, in grado di rivoltare la natura contro chiunque.



E poi il silenzio.
Che è sia quiete notturna che disagio. Quella mancanza di respiro che, in chi ha già conosciuto la morte, sottende a visioni infauste.
Ed ecco che passiamo da un ambiente buio, e tuttavia mirabilmente descritto senza citare nulla, ma solo evocando la presenza di oggetti e persone dai profumi dei materiali che li compongono, si penetra nella mente del protagonista, ancora un ragazzo.
Non nei suoi pensieri coscienti, ma nei ricordi, filtrati dall’emotività e dal dolore. La morte del padre, e un terrore strisciante, disciplinato, timoroso di forze superiori, misto a istantanee, le dita nere attorno all’elsa, che sono tipiche di quei momenti, dei lutti, in cui il pensiero e lo sguardo di chi assiste alla veglia funebre vagano insieme, senza scopo se non quello di assorbire quel dolore in fretta, e allo stesso tempo si soffermano sui dettagli stupidi.
Quei particolari all’apparenza insignificanti, che sedimenteranno nella memoria, e andranno a fomentare quelle notti incerte, dove nonostante si sia stanchi, ci si perde in quel futile esercizio di rievocazione dei sentimenti: quasi che a lasciarli andare via, ci si liberasse un po’ vigliaccamente, di ciò che ci resta dei nostri cari.
Una notte da spettri.

Oltre a leggere Leiber, dovremmo tornare a leggere senza la fretta di concludere, mettendo da parte la storia e assaporando i passi lungo il cammino. La sintassi, la scelta delle parole, il ritmo del racconto, perché certe cose sono dette alla maniera in cui vengono dette, tra mille possibili varianti. Perché alla fine, ciò che resta è la bella scrittura. Che si fa citare. Che diventa cultura, storia. Ciò che non lo è, torna a essere niente.
E perché, è mai stato altro che niente?

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* ovviamente c’è un link commerciale, ma voi Leiber dovreste proprio comprarlo.

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