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La fusione di realismo e fantastico: L’Invenzione di Morel

Appena qualche giorno fa ho capito che L’invenzione di Morel è il mio libro preferito.
L’ho fatto mentre parlavo di Shirley Jackson.
Proprio così, perfetto, non lineare. Come la vita.
L’invenzione di Morel è la vita. È il mio libro preferito perché suggerisce l’idea che il fascino dell’immortalità sia il quotidiano. La ripetizione.
L’Eterno Ritorno.
L’ho letto diverse volte, ma non ho mai capito quanto fosse importante per me fino all’altro giorno.
Lo scrittore scrive, ho detto e ho scritto più volte.



Adolfo Bioy Casares ha scritto, ma non ha ascoltato evidentemente l’amico Jorge Luis Borges che soleva ripetere (ripetizione, è sempre la chiave) ciò che suo padre gli ripeteva: scrivi e strappa ciò che hai scritto.
Non era importante pubblicare. Era importante scrivere. Per la pubblicazione c’era tutto il tempo del mondo, anche in tarda età.
Ma Casares pubblicava, invece. E poi si vergognava di quelle prime cose, scritte col peccato di gioventù.
D’altronde lo faceva anche Borges: che pubblicò per la prima volta intorno ai vent’anni.
I consigli sono fatti per essere ignorati.
E, in ogni caso grazie, Adolfo, per aver scritto e non aver strappato.

Se la letteratura è sempre stata il fantastico, parlando di uomini d’altre epoche e mostri (prodigi) e dei, il realismo ne è stato solo una fase. Minuscola, rispetto alla durata della storia.
Ma una fase che dura almeno dal XIX secolo e che è giunta con la sua cattiveria fino al XXI, e non sembra cedere il passo.
Sì, il fantastico ha la sua sacca di resistenza, tra consapevoli e nerd che credono di avere vinto, la vittoria di non si sa bene quale guerra, dato che il fantastico è SEMPRE stato letteratura. Si può dire che non c’è mai stata una guerra, ma nemmeno una partita. E che questa suddivisione in schieramenti sa tanto di decadenza e superficialità generalizzate.
Eppure, gli integralisti del realismo, che hanno sempre voluto parlare solo di ciò che avevano davanti agli occhi, hanno imposto la loro visione: i mulini a vento sono ciò che sono. E basta.
Dove sono andati a finire, perciò, i giganti?



Per Borges l’Invenzione era il trionfo dell’avventura contro la noia dell’esistenza. E io continuo a essere persuaso che Borges, il “grande amico” di Casares, il libro non l’abbia nemmeno mai aperto, perché la sua prefazione nega ciò che va a presentare.
E la cosa non mi meraviglia nemmeno.
Lo fanno tutti, parlare di ciò che non leggono. Di sicuro, lo fanno con meno fascino di come lo faceva Borges. Questo sì.
“Ehi, volevo consigliarvi questo libro – che non ho ancora letto – di uno stimato collega”. Dove le parole chiave sono stimato e collega.
E gli amici… Be’, sono quanto di più transitorio esista.
Poco importa, nel caso dell’Invenzione. Anzi, rende il libro ancora più prezioso.
E di certo continuo a stimare Borges.

La vera invenzione di Casares è la fusione di realtà e divinità (e fantastico).
Parla di altri tempi (un Naufrago in fuga da non si sa bene quale dittatura), di altri luoghi (l’isola), di realtà impossibili, un microcosmo popolato di fantasmi (gotico), di consapevolezza dell’esistenza e di aspirazione a trascendere i limiti umani, trasfigurando se stessi in un’immagine eterna tramite una macchina (che è in tutto e per tutto un deus ex).
Nell’Invenzione tutto è fantastico, pur essendo tutto realistico. In fondo cos’è, la macchina inventata da Morel, se non cinematografia radicalizzata?
Anzi, neppure cinema. Il cinema è artificio, così come ogni narrazione. L’invenzione è, al contrario, mera ripresa di azioni quotidiane, dallo stesso Morel volute il più comuni e spontanee possibili, dettate dall’assenza di ogni consapevolezza.
Di essere ripresi.
Di stare divenendo immortali.
Di vivere.
Vivere senza la consapevolezza di dover morire. Puro istinto – e amore – per l’esistenza. L’amore per il midollo della vita.

Nessuna avventura profetizzata da Borges, quindi, nessuna fuga nel fantastico: solo la dimostrazione che la realtà possa – non debba – essere anche fantastica. Che sia essa la risultante della fortuna, che dona a certi privilegiati un susseguirsi di eventi piacevoli o, come nell’Invenzione, di sapiente scrittura.
Un artificio.
Proprio così. Il Naufrago sull’isola di Morel irrompe nel Paradiso degli dei dell’abitudine, cristallizzati nel tempo nella loro casualità, e vi si inserisce – una vera e propria opera di moderna sovrascrittura, quasi una patch superflua su un software già pienamente funzionante – recitando la sua parte, scritta da lui stesso: il Naufrago stabilisce le sue battute, i suoi tempi, la sua mimica.
Nessuno, dopo di lui, dovesse finire su quell’isola, noterà che l’immortalità del Naufrago – artificiosa – è posticcia rispetto a quella naturale di tutti gli altri.

L’Invenzione è quindi la storia di un uomo che si fa dio tramite un artificio magico. È pura fantasia che piega il realismo al proprio scopo.
Quasi che Casares volesse dire a Borges che non è necessaria nessuna fuga, nessuna irruzione nella realtà da parte del fantastico.
Sono entrambi compresenti. Così come i mulini a vento.
Sono giganti, a seconda di come li si guardi.

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