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La discesa

Nell’ascensore non si sentiva il minimo rumore. Dentro c’erano un centinaio di persone, e mentre scendeva era più silenzioso di una tomba. Giù. Giù. Sempre più giù.

Richard Matheson è uno dei miei autori preferiti. L’altro è Bukowski, ma per altre ragioni, perché è un maestro dell’esistenza… Ma non divaghiamo.
Di Matheson e della sua scrittura ho sempre invidiato la capacità di farti entrare in un altro mondo, in poche righe.
E ribadisco: poche righe.
Che siano romanzi o racconti, o racconti brevissimi, come nel caso di Descent – La discesa, la capacità è invariata. Sei lì, a sentire sulla tua pelle la malinconia struggente e un po’ irreale che si prova a guardare l’ultimo tramonto.

thesefinalDescent è stato scritto nel 1954. A rischio di ripetermi, il terrore frutto di questo breve racconto è quello dell’America degli anni Cinquanta, che sperimentava le atomiche nel deserto, inorridendo della propria stessa potenza e temendo che i malvagi sovietici, ormai entrati in possesso di medesima arma terminale, desiderassero sganciarla sui cieli di Washington, Los Angeles e tutte le metropoli simbolo e vanto della civilizzazione yankee.

Abbiamo sei personaggi sull’orlo della fine del mondo.
I missili sono stati ormai lanciati e, da una settimana, su ogni media, non si fa che ripetere lo stesso annuncio: chi può, chi è stato invitato, deve presentarsi agli ingressi delle Gallerie, complessi sotterranei dove trascorrere i successivi quarant’anni.
Sottoterra.
Al buio.
Un buio ornato di orpelli tecnologici: tramonti digitali alle finestre, volte delle gallerie illuminate di stelle, sole e luna facenti funzioni. Tutto pur di sentirsi meno soli e disperati.

Richard Matheson
Richard Matheson

Ché gli scienziati, gli esperti del caso, guardano con orrore al futuro. Non bastasse il quotidiano diventato nero e polveroso, asfittico quanto può essere l’aria di una galleria, c’è che la natura umana soffre se, come sta per succedere, viene privata di tutto in un colpo solo. Sofferenza esiziale, da colpo in testa.

L’idea, poi omaggiata splendidamente nel recente These Final Hours, è estrema.
Si basa sull’illusorietà, che è il meccanismo di difesa che ci consente di non impazzire, di illuderci di avere sempre tempo. Tempo per vivere, fare esperienze, soddisfare bisogni, esaudire desideri. È la nostra stessa natura a difenderci dalla consapevolezza della fine.
A volte, però, qualcuno o qualcos’altro decide per noi, e ci toglie non solo l’illusorietà, ma il tempo. Che è tutto ciò che abbiamo.

Il tempo sta per scadere, e i protagonisti di Descent vivono in uno stato quasi allucinatorio. Sono consapevoli del disastro imminente, temono la prospettiva di seppellirsi volontariamente in un sarcofago, per quanto tecnologico e confortevole possa essere, eppure s’illudono, fissandosi sul quotidiano, sugli oggetti di tutti i giorni, sulle emozioni di tutti i giorni, che magari sia tutta una finzione; cercano d’illudersi di avere ancora tempo. Un altro giorno ancora, ancora qualche ora, qualche minuto appena…

Non è per niente facile immaginare la propria fine. O, peggio ancora, la fine di tutto. Che toglie senso a ogni cosa, alla progettualità, a ogni singola azione. Allo scopo della nostra esistenza.

Matheson riesce a evocare questo sentimento estremo in poche pagine, dandoti il groppo in gola, celebrando la pochezza della umana natura in una singola frase, che dà la giusta prospettiva al tutto:

Al di fuori, le stelle brillavano per la milionesima volta in un milione di anni

Mentre, su un piccolo pezzo di roccia, milioni di creature intelligenti assistono impotenti alla propria fine, che arriva dall’alto, da un missile scagliato dai loro simili. Le stelle, invece, splenderanno, immote, per altri milioni di anni.

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