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L’esercizio della lingua

A scuola, in latino o matematica mi attestavo sul cinque di media, in italiano prendevo la sufficienza.
Non studiavo nessuna delle tre materie, forse a causa di professori noiosi.
Però in italiano prendevo la sufficienza. Sempre. Probabilmente perché, nonostante non la studiassi, era la mia lingua madre, e a casa si parlava un italiano corretto. Semplice, ma corretto.
Le volte in cui facevo un buon lavoro, a scuola, ovvero quando aprivo un libro un po’ di più, mi davano un sette. Niente di più.
Gli otto e i nove parevano riservati alla elite della mia classe: tutte ragazze.
Una constatazione, non una polemica. Le cose stavano così.

Una volta, solo una volta mi presi la briga di leggere cosa ci fosse di così speciale, nei loro scritti, a parte la grafia più tondeggiante e aggraziata – rispetto alla mia, piccola e stitica – e non ci trovai niente, a parte l’impiego di termini ampollosi, che già allora trovavo inadatti.
I termini che, ogni giorno, incontravamo sui libri di testo. Loro li assorbivano e li impiegavano, e venivano premiate per questo dalla classe docente. Io no.
Io ero quello dell’italiano semplice.
Quei termini che distinguevano, per l’appunto, tracciavano un solco tra quale può essere il tema di un ragazzino di sedici anni a scuola e un testo di letteratura su cui quel ragazzino deve studiare e essere interrogato.

Credo sia l’esempio più immediato, che posso rievocare, dell’anti-lingua citata in questo articolo.
Che, se non volete seguire il link, in breve ve la posso spiegare così: l’anti-lingua è quella che trovate nei tweet di Diego Fusaro, nei libri di testo di letteratura e giurisprudenza, ricercatamente farraginosi, che sembrano scritti da Giacomo Leopardi sotto meta-anfetamine. Ancora più in breve: è la lingua che non vuole farsi capire, e che vuole farvi sentire piccoli piccoli di fronte a una presunta arca di scienza.

Se il problema dell’anti-lingua esiste, esiste, come abbiamo visto, come modus vivendi: le nostre vite sono impostate a considerare l’antilingua come qualcosa di formale, che sta lì a distinguersi dalla massa.
C’è la plebe, che parla, e la ristretta cerchia degli illuminati, che discorre.
Ai limiti estremi, persino la lingua del doppiaggio, sì, quella di film e telefilm, può essere considerata antilingua. Nella vita nessuno usa espressioni come “fottuto bastardo”, o altre simili facezie inventate allo scopo.

Siamo quindi educati fin dalla scuola a parlare due linguaggi distinti, quello ufficiale/formale, e quello quotidiano, permettendoci delle contaminazioni, o combinazioni.
Perché? Boh, forse perché siamo idioti.
Idioti con la puzza sotto al naso. E la scopa nel culo.

“No no no, tu non ascolti la gente quando parla: non puoi dire ‘affermativo’, o altre cazzate del genere. Devi dire “no hay problema”.” (John Connor, Terminator 2)

Per l’appunto.
Quindi, a scuola prendevo la sufficienza.
Poi, in verità, negli anni d’università ho scoperto di aver immagazzinato non soltanto un bel po’ di lingua italiana, tra fonte artificiale e quotidiana, ma anche latino, tant’è che è stato proprio in quelle materie che mi son sentito di proseguire gli studi (nessuna storia del cesso, da queste parti, right?). Diversamente, che io sappia, da tutte le mie ex-compagne di scuola, quelle brave.
Ho scoperto l’amore per la scrittura piuttosto tardi, intorno ai diciannove anni, e son dovuti trascorrere ancora molti anni prima di riuscire a scrivere decentemente, scrivere narrativa, intendo.
Di tanto in tanto vado a rileggere le mie prime cose. A parte la naturale, scarsa scorrevolezza, quello che maggiormente caratterizza i miei scritti di gioventù è la sovrabbondanza di termini. Più o meno ampollosi.

Ero stato istituzionalizzato anche io.

Poi sono diventato editor. Così, per caso, come ho scoperto di conoscere bene la lingua, ho anche scoperto di essere in gamba a migliorare un testo altrui. E, durante l’editing, a parte inserire le virgole (le virgole sono la dannazione della maggior parte dei sedicenti autori – “Sono difficili da capire e impiegare”, incredibilmente cit.) l’intervento che mi capita di fare più spesso è cancellare. Sottrarre anziché aggiungere. La stessa frase, scritta con nove parole, funziona meglio con cinque. Togliamone quattro, e diventa, con ogni probabilità, più immediata, chiara, scorrevole. In definitiva, leggibile.
Che poi è, la leggibilità, il fine ultimo di ogni testo scritto.

Pare quindi che sovrabbondanza e ricercatezza di termini siano indice di inesperienza nell’impiego della lingua. E di inefficacia nel modo in cui essa ci viene insegnata.
L’errore è a monte.

Stessa cosa contro la quale si scagliavano Calvino, Levi, e altre personalità citate nell’articolo che vi ho linkato.
Qualcosa è cambiato?
No.

Perché siamo sempre i soliti idioti. Come sopra.

Ovvio che queste voci, sebbene provenienti da persone illustri, non siano state ascoltate. E che l’impostazione, il modus vivendi col quale veniamo formati sia sempre lo stesso: una convivenza, scomoda, di linguaggi. Laddove il formale, o ufficiale, che in teoria dovrebbe essere il più comprensibile a tutti, essendo privo di inflessioni dialettali e personali, diventa il più inaccessibile, fonte di scherno, di satira, di inappropriata superiorità intellettuale.

Certo, c’è anche l’altra faccia della medaglia: la semplicità estrema non va confusa con la sciatteria, né l’esercizio della lingua come inutile e anacronistico. Né la comprensione di essa come cosa da “professoroni”.

Il giusto mezzo, perdio.
Come in ogni cosa.

Possibile che sia così difficile?

*

Altri link utili:
l’articolo di Kara Lafayette

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