Mario Dilitz, austriaco, lavora il legno. Ancora io trovo la scultura una delle forme d’arti più affascinante, perché va necessariamente disciplinata, a parer mio più di un dipinto, a uno spazio imperfetto.
E l’imperfezione del legno, le sue venature, che sono la sua età, aggiunge sfumature che sanno d’antico.
A rifletterci, di quante opere d’arte potreste conoscere, semplicemente contando gli anelli, l’età?
Materia che si trasforma, o forse che rivela la sua forma interiore.
Colpi di scalpello, pialla, trucioli e segatura ovunque.
Se per caso vi steste chiedendo com’è lo studio di uno che scolpisce il legno, be’…
Eccovelo.
Selvaggio.
Il primo aggettivo che mi viene in mente.
L’altro è caotico, ma trattasi com’è ovvio di caos armonico, di sicuro caro e funzionale all’artista.
Tra l’altro, come fosse già pura composizione, o esposizione, il contrasto tra perfezione e caos residuale crea stupore, e benessere.
Pare quasi di sentire l’odore del legno, caratteristico dell’albero cui apparteneva, che deve impregnare la stanza.
Le figure di Dilitz rammentano, a una prima occhiata, data la loro verticalità e compostezza, le statue egizie, quelle delle divinità, quelle piccole, accostate, timide, alle gigantesche gambe del faraone.
Ma le vediamo espressive, sofferenti, dubbiose, fissate in un attimo d’incertezza. Sono umane, troppo umane.
Bellissimo, poi, il sapiente uso dello spazio, l’insistenza sui dettagli esterni, come i guantoni da box, o un orsetto giocattolo, che da inanimati devono aggiungere dinamismo a una altrimenti statica figura umana, che così resta centrale e assoluta, perché veicolata da ciò che indossa, stringe, impugna. Sono tutte cose secondarie, quegli oggetti, sono scaturiti dall’uomo.
L’attenzione dello sguardo resta focalizzata sull’essere, non sulla personalità. Sulla fragilità della creatura che, da sola, ha dato origine a tutto.
E che da quel tutto è spaventata.
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Link utile:
il sito dell’artista