Underground

Le maschere di Anna Coleman Ladd

Parliamo di un particolare campo dell’arte, resosi necessario con l’evolvere della guerra.
Era la Grande Guerra.
Che fu combattuta con mezzi di distruzione mai visti prima.
Col gas mostarda.
Con granate e artiglieria.
Le mutilazioni, le più gravi o compromettenti, non riguardavano gli arti, ma il viso. Che restava scoperto.
Una gamba o un braccio di legno erano, oltre che un handicap, una storia da raccontare ai nipoti, ma un’intera parte del viso mancante era tutt’altro.

Era la morte sociale. Si traduceva in sguardi orribili da parte della gente. Sì, quegli sguardi di curiosa (e morbosa) commiserazione, che ammazzano ciò che resta di una psiche già distrutta.
E visto che si fa prima a farsi una faccia nuova che a spiegare alla gente il tatto e la sensibilità, si pensò alla ricostruzione. Accessoria, certo, in nulla diversa dalle protesi per gli arti. Un compito non facilissimo.
Le ricostruzioni facciali – per lo più cuciture grossolane di ciò che restava – nel primo quarto del Novecento, rivelavano tutta la loro drammatica semplicità. Erano fatte in fretta, per sconfiggere il rischio d’infezione. Poco o nulla importava il futuro del paziente. Anche perché il materiale col quale ricostruire era, spesso, irrimediabilmente danneggiato e di colture di pelle e chirurgia plastica ricostruttiva non se ne sarebbe più parlato per altri, tantissimi, decenni.

Quindi l’idea, nata in Francia e poi esportata in America, fu di offire ai reduci una chance di poter rendere gli anni successivi alla Guerra se non normali o confortevoli, cosa impossibile, il più possibile sopportabili. Di metterli al riparo da quei maledetti sguardi, di offrir loro quartiere.
Riparo dietro le maschere.

Anna Coleman Ladd le costruiva impiegando la sua arte, ché di arte si tratta. La ricostruzione del viso veniva effettuata tramite fotografie precedenti l’infortunio e tramite la descrizione degli stessi protagonisti, attraverso una vera e propria intervista esplorativa.
Venivano realizzati dei modelli in gomma, e via via si procedeva alle modifiche finché il destinatario della maschera non si riconosceva in essa.
Dopo di ché si procedeva alla realizzazione vera e propria della maschera, fusa nel rame e “abbellita” tramite ritocchi pittorici per darle la giusta colorazione ripresa dalla stessa Ladd dall’epidermide del paziente.
Addirittura, Ladd dipingeva anche un velo di barba e, a richiesta, applicava alla protesi dei baffi ottenuti tramite i capelli.

Parliamo di maschere, ma invero poche erano quelle complete, si trattava per lo più di parti di volti, menti, mandibole e bocche, spesso arricchite da occhiali o altri accessori.

Il risultato, da quello che si può intuire dalle foto e dai video giunti fino a noi, era quantomeno dignitoso. La missione sociale e psicologica compiuta, se non altro stando agli scarsi mezzi dell’epoca.

Rimane soltanto, a distanza di così tanti anni, quel senso di agghiacciante surrealtà che appartiene alla guerra, di qualunque epoca. E i brividi. Tantissimi brividi.

(Special thanks to Alex)

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vanillamagazine
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