Diversi amici bloggers, con le loro riflessioni, esposte qui e a casa loro, mi hanno spinto a scrivere articoli, passatemi il termine, d’antiquariato, con un puro gusto vintage. Preferenza che su queste pagine non ho mai nascosto.
Ho capito che, se è vero che amo il cinema degli anni ’80 (tranquillo, Matteo, il banner che mi hai regalato apparirà!), odiando in parallelo tutto il resto di quel periodo, eccetto Sabrina Salerno e i Simple Minds e qualche altra cosa, venero ancora di più gli anni ’50. Soprattutto l’estetica di quel decennio.
Non sono il solo, certo. Ma solo mia è la meraviglia che provo guardando i memorabilia del tempo. Voi altri proverete la vostra, di meraviglia, ma non possiamo confrontarle, parlando di sensazioni private e uniche, se non tentando di descriverle a parole. Che siano foto di pin-up, poster retro, automobili, oggettistica, vecchie immagini, città, paesaggi, guardaroba, così stylish, fino alle acconciature, tutto mi piace di quegli anni. È un contrappasso, credo, che mi porta a desiderare un tessuto di realtà, come poteva essere quello statunitense dei fifties, che non può essere più lontano rispetto alla mia quotidianità, fatta di mare, sole e macchia mediterranea e di un passato greco-romano.
Quest’articolo nasce per parlare, se volete, di meraviglie. Non di tutte quante. Solo di alcune, quelle del momento presente. Del mio e, spero, anche del vostro.
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B-movies e nostalgia
Le mie meraviglie sono i b-movies. Quelli messi su in fretta, con pochi soldi a disposizione, idee strampalate a costituire la sceneggiatura, e succinte pin-up a mostrarsi deliziosamente in ruoli improbabili. Quei b-movies, proprio quelli, sono fantastici. Irripetibili. Profumano di donuts, le ciambelle da mandare giù con un litro di caffé lungo [che, per la cronaca, mi fa vomitare, ma è bello pensarci]. Momenti a testimonianza di un passato che è fissato per sempre.
C’è molta nostalgia nelle mie parole, come sostiene AgonyAunt. Il ché rende tutto ancora più paradossale. Come si può provare nostalgia per qualcosa che non si è mai avuto? Che non si è mai conosciuto veramente?
Forse ho sbagliato decennio in cui nascere. Gli anni ’70, nella seconda metà.
Però, qui nel nuovo millennio c’è internet e una banca dati infinita. Mica male il progresso.
Capisco finalmente anche Quentin Tarantino quando si esalta a parlare di cinema d’epoca, romanzetti pulp, della Golden Age di Hollywood, degli anni ’50 e del suo cinema, per l’appunto, e soprattutto di b-movies. Mi è sempre sembrato strano in quei suoi sproloqui e nel suo entusiasmo, finché non ne sono rimasto vittima anche io. Per ricollegarmi al discorso sul blog di Alex, in fin dei conti è vero che queste passioni finiscono per renderti un tantino weird. Dal mio punto di vista da intendere con un’accezione tendente al soprannaturale…
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L’attacco
L’ho detto e l’ho fatto. Stregato dal poster, dove una gigantesca Allison Hayes in vesti succinte afferra automobili e semina panico e distruzione, l’ho cercato e l’ho visto. In inglese, purtroppo. Attack of the 50 Foot Woman, del 1958, per la regia di Nathan Juran.
La prima cosa che colpisce, dopo aver appreso della durata, solo 64 minuti, è il tono impostato degli attori e delle attrici. Stiamo parlando di un b-movie, e nella mente uno è portato a immaginarsi una tipica, ma brillante sciatteria nella recitazione.
Nulla di più falso.
Al contrario, mai udito un inglese più comprensibile. Simile, per intonazione, ai film italiani di quegli stessi anni, dove sembrava che tutti parlassero con una scopa nel didietro. Tipico effetto straniante che mi fa pensare non so perché ad un periodo estremamente educato, almeno all’apparenza. Tutti a curare il tono di voce, a ponderare, ma tanto le voglie notturne erano uguali ora come allora…
E poi, subito, ci si accorge della qualità delle riprese. Bianco e nero, certo, e altrettanto sicuro, non una scelta estetica, ma pura necessità. Inquadrature statiche, che indugiano sui protagonisti in primo piano e si allargano sulle comparse rigidamente istruite a muoversi con cadenza millesimale nelle scene di gruppo, coreografate a dovere.
Stupore che si accresce venendo a sapere degli 88.000 dollari di budget.
Nel ’58 non una cifra da nababbi, ma neppure da buttare via. Sfruttata al meglio delle possibilità per fornire una qualità visiva superiore.
Attenzione, è sempre un film figlio della propria epoca, con tutte le limitazioni tecniche e scenografiche del caso, ma credetemi se vi dico che c’è da restare ammirati per un prodotto che da questo punto di vista eccelle.
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Il cappello e la playmate
La storia è semplice, weird e molto dinamica. L’ora e cinque scorre in fretta, creando attesa per quell’attacco del titolo che sembra non dover arrivare mai. Nel frattempo, però, ci si intrattiene con gusto. C’è dentro di tutto, come se lo sceneggiatore, Mark Hanna, si fosse divertito a pescare le idee da un cappello pieno di bigliettini contenenti degli spunti, e ad assemblarli tentando di tessere un filo conduttore sensato per quanto grottesco, in un universo parallelo che può basare la propria riuscita solo sulla sospensione dell’incredulità. Il bello, che è anche causa ulteriore della mia meraviglia, è che ci è riuscito.
C’è logica in una banale vicenda di tradimento che si mescola sulla Route 66 (!) a un incontro ravvicinato del III tipo, a un tentativo di omicidio ai danni della protagonista, moglie tradita dal consorte e dall’amante/mantide di quest’ultimo, e alla trasfomazione della prima in un essere gigantesco assetato di vendetta.
Trionfo del trash ante litteram, privo, ed è questo il bello, di qualsiasi approfondimento psicologico.
Figuratevi che Hanna era talmente incolto da essere convinto che a qualsiasi velivolo spaziale si attribuisse la nomenclatura “satellite”. Così, satellite, è più volte chiamata l’astronave dalla quale un alieno gigantesco infetta la protagonista, professionista di b-movies, Allison Hayes (1930-1977).
A contenderle la scena il marito fedifrago, William Hudson, che riesce, tra una pomiciata e l’altra a menare di brutto il suo maggiordomo, e la bellissima Yvette Vickers, playmate per la rivista di Hugh Hefner che le dedicò il centerfold, il paginone centrale, nel luglio 1959. Cercate sue foto in rete perché c’è da restare secchi ancora adesso… per le signore lettrici di B&N, mi dispiace, ma il signor Hudson non è altrettanto avvenente.
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Sui generis
Il film, oltre alla qualità visiva, che ritengo fosse sui generis, considerando il business e la concorrenza spietata che serpeggiava sulle colline losangeline, contiene, oltre ad alcuni stereotipi, come il vicesceriffo deficiente, lo psicologo e il medico con borsa che scende dalle scale per parlare con tono severo al marito preoccupato dopo aver dato un’occhiata alla moglie al piano di sopra, tuttora vivi e vegeti in centinaia di commedie, anche trovate narrative di grande efficacia, l’ingresso dello sceriffo e del maggiordomo nell’astronave e i seguenti giochi d’immagine con lenti deformanti; ricordo che, ancora non so spiegarmi come, il progetto dell’omicidio ai danni della moglie coesiste con le esperienze extraterrestri di quest’ultima, per arrivare al culmine della coincidenza, che dal punto di vista delle probabilità è follia pura, ma da quello narrativo è geniale, che vede il marito recarsi nella stanza da letto per fare un’iniezione letale alla moglie, un’infermiera che lo segue e sembra essere sul punto di coglierlo sul fatto, ma sul più bello gridare perché entrambi scoprono che le dimensioni della signora hanno subito, come dire, una leggera variazione, testimoniata dalla mano enorme che sporge dalla spalliera.
Come c’era da aspettarsi, ci sono anche le pecche. Prima fra tutte i ridicoli effetti speciali, in parte meccanici, tramite l’impiego di arti giganti di cartapesta [con le unghie smaltate, ndr] con tanto di irregolarità tipiche sulla superficie, l’utilizzo della “doppia esposizione”, o “sovrapposizione delle immagini”, per incrementare la statura della protagonista, che fa apparire i giganti quasi incorporei, quando non si preferì ricorrere ai classici, ma intramontabili modellini. Vediamo così Allison Hayes sradicare un traliccio dell’alta tensione o sfasciare una camera d’albergo con una sola mano.
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Stream of Arts
4.8 è il voto che “Attack of the 50 Foot Woman” vanta su IMDb. Se me lo chiedete, dal punto di vista dell’intreccio direi che se lo merita tutto. Eppure, suscita meraviglia, attrazione per la bellezza classica incarnata da Allison Hayes e soprattutto da Yvette Vickers che, da perfetto tramite per il decennio successivo, balla il rock & roll, seducente più che mai, e non dimenticando le musiche, lo speaker e tutta quell’atmosfera plastificata.
Riallacciandomi, in conclusione, a quanto discusso nell’articolo precedente, credo che, più che nostalgia per tempi andati, che nessuno di noi ha mai vissuto di persona, sia l’effetto paradossale della contemporaneità di ogni epoca e di ogni film, che ogni periodo storico gode grazie a internet.
In questa massa caotica di informazioni, la vera estasi dell’arte, ogni periodo coesiste con tutti gli altri. E tutti sono presenti e vivi. Basta scegliere. Più arte scorre e più ne siamo assetati.
Il rischio è quello di perdere l’unicità del momento, la confidenza. Di assuefarsi al meraviglioso. E di non riuscire più a scorgerlo.
Link utili:
“Attack of the 50 Foot Woman” (1958) – IMDb
“Attack of the 50 Foot Woman” (1958) – Wikipedia ENG
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Bonus Track: “New Gold Dream” dei Simple Minds. Lo so, non c’entra nulla col film, ma ci sta bene col discorso “meraviglia”. Un grazie a CyberLuke e Cybsix per avermela fatta ricordare.