The Missing è una miniserie franco-britannica interpretata da James Nesbitt, Frances O’Connor, Tchéky Karyo, Jason Flemyng.
Ad alcuni di voi questi nomi diranno qualcosa, ad altri no. Io mi limito a elencare qualche titolo piuttosto noto a cui questi signori hanno lavorato: Nikita (di Besson), Match Point (di Woody Allen), Lock & Stock (di Guy Ritchie).
The Missing è, come da titolo, incentrato sulla scomparsa, o sparizione.
La scomparsa è quella di un bambino inglese in vacanza in Francia insieme ai genitori.
Ispirato a True Detective, non tanto nella storia, pur di poliziesco investigativo trattandosi, ma nell’impianto scenico e narrativo: trattasi di otto episodi, serie auto-conclusiva, che alterna due piani temporali: il 2006 (l’anno dei mondiali vinti dall’Italia) e il 2014; e soprattutto nella costruzione a incastro degli avvenimenti, gli episodi infatti sono concatenati l’uno all’altro e gli eventi e i molteplici personaggi si sfiorano ciascuno indugiando sulla propria parte di racconto.
Messinscena maestosa, che vale la visione, The Missing s’incentra quindi su due aspetti fondamentali: l’assenza e l’ossessione.
Alla fine ciò che tiene desta l’attenzione dello spettatore, che poi è il fine ultimo dello spettacolo, non è tanto la bravura degli interpreti (Nesbitt e Karyuo su tutti), quanto l’abilità degli sceneggiatori di aver costruito questa struttura soltanto su due temi, peraltro archetipi della cultura letteraria occidentale, e averli resi indispensabili.
Si pretende, di episodio in episodio, di conoscere la fine di questa storia.
Otto puntate piene, magistrali, prive di accessori e ornamenti, che rifiutano di mostrare dettagli torbidi e raccapriccianti, pur avendone la possibilità, e parlano di assenze. E che si regalano anche un piano sequenza, un inseguimento in auto.
L’assenza è quindi quella del bambino.
Un’assenza ermetica, quella che Mario Luzi direbbe possibile percepire dai passi o nel vano d’una porta.
Un bambino che ci è mostrato attraverso pochissime scene, insieme al padre.
Ed è col padre anche nella sequenza dello smarrimento.
Questo bambino scompare nella confusione della folla di un locale a bordo piscina, dove viene trasmessa una partita di quel mondiale, e non compare mai più, se non nelle foto divulgate dalle autorità per facilitare il suo ritrovamento.
Ogni indizio che nell’arco di otto anni sembra portare più vicini alla sua comparsa lo vede invece sempre apparizione fittizia, quasi un fantasma, come in un video ritrovato fortunosamente, che lo mostra com’era nel 2006, solo otto anni dopo.
Ecco, il successo è riuscire a costruire un personaggio, attorno al quale si muovono tutti gli altri, senza praticamente farlo mai agire in prima persona.
Il vero protagonista è questo bambino, di nome Oliver, o Olly, ed è allo stesso tempo puro oggetto: in mano ai rapitori, forse, in mano a un futuro ignoto, cercato da tutti e introvabile. Il suo personaggio parla attraverso le tracce che egli lascia dietro di sé: una sciarpa gialla con le sue iniziali ricamate, un disegno sul muro raffigurante il padre con le orecchie grandi, una traccia video e, infine, una macchia di sangue, nel luogo in cui è stato visto per l’ultima volta, ancora vivo.
Indizi che non danno certezze, ma che suscitano riflessioni, per quanto angoscianti e/o definitive. Esiziali, ma che non liberano mai del tutto dal dubbio.
Oggetti, sciarpa e disegno, soprattutto quest’ultimo, che traslano, avendo una duplice funzione: sono i mezzi che il personaggio Olly ha per esprimersi e far pesare il suo ruolo in questa commedia (termine che adopero nella sua accezione classica), e sono anche i simboli dell’ossessione paterna.
Oserei dire che tutto si gioca su un duo: padre e figlio. Ormai così insolito, come duo, da risultare prezioso.
Ma prima, a questo riguardo, consentitemi una piccola premessa: tutti i personaggi di The Missing sono perfetti nella loro verosimiglianza, a partire dalla madre, fragile, speranzosa, distrutta dal dolore e desiderosa di ricominciare quella vita interrotta otto anni prima; il poliziotto che le è accanto; l’altro, l’anziano (Karyo), che per parte sua pretende di concludere un ciclo d’indagini aperto otto anni prima e mai concluso; persino i pedofili che a un certo punto vengono coinvolti nell’indagine, con le loro motivazioni disgustose e aberranti.
Ma l’epica si incarna in figure solitarie, dai tempi di Omero, figure egoiste e ossessionate, incapaci di rinunciare a un fardello che pure dev’essere gravoso, ma che loro sono chiamati a portare.
E qui subentra la controparte all’assenza di Olly: l’ossessione del padre, Tony Hughes.
Che non è un eroe. O non lo è nell’accezione comune. E infatti un eroe epico, carico di difetti umani: irascibile, violento, vendicativo e inarrendevole.
È la sua ossessione, la sua volontà non tanto di ritrovare il figlio scomparso, quanto di conoscere la verità sulla sua sorte che lo porta, otto anni dopo, a scoperchiare un caso di scomparsa che si credeva morto e sepolto e a far riaprire l’indagine.
Con tutto il carico emotivo pesantissimo che ne consegue.
Ma ecco, c’è spazio anche per la dannazione.
Riflettendo, mentre guardavo l’ultima puntata di The Missing, paragonavo il personaggio di Tony a Ulisse che, mai sazio, incapace di restare a casa, riparte pur avendovi fatto ritorno dopo dieci anni di traversie. Per superare le colonne d’Ercole.
In The Missing si assiste a un balletto costante tra assenza e ossessione, fino all’aberrazione: che l’una non smetterà mai di esistere, a conti fatti e a prove fornite, perché sempre, sempre alimentata dall’altra, che non vuole accettare la verità, qualunque essa sia.
E questa, signori e signore, è nient’altro che epica.