Certi film li perdo.
Proprio non so perché. Lascio che il tempo passi. Ed essi scorrono via. A loro, a questi film, concedo solo indifferenza e oblio.
Questo mi rende contraddittorio, o paradossale, gestendo io un blog di cinema.
Ma davvero non potete immaginare quale sia la gioia nel ri-scoprirli da solo. Senza aver letto nulla su di essi. Essendo rimasto puro da ogni giudizio o consiglio e soprattutto dalle critiche.
Di Lasciami entrare (“Let the Right One In” -“Låt den rätte komma in”) non sapevo nulla tranne il fondamentale: vampiri.
E dovete ammettere che affrontare l’argomento di questi tempi mette di cattivo umore. E, più che dubbi, solleva noia mortale.
Sapevo anche che si trattava di una vampira piccola d’età (apparente) e dimensioni. L’amichetta della porta accanto.
I vampiri studenti, che vanno a scuola, si innamorano e sono decisamente inferiori alla media di qualunque adolescente. Questo in teoria. Seguendo orride mode.
Il romanzo omonimo di John Ajvide Lindqvist, poi, neppure l’ho sfiorato. Credete che abbia la pazienza e il gusto di vedere tutti i film di cui prima ho letto i libri? Càpita, è vero. Ma in generale la cosa non avrebbe senso e condannerebbe, quasi sempre, la versione di celluloide premiando invece la carta.
So anche che c’è il remake americano di quest’anno. E che, pare, l’attrice a stelle e strisce che ha rubato il ruolo di Eli sia pure brava.
Non nego che il sangue europeo di questo film del 2008 sia stata una premessa decisiva.
L’Europa è algida, ricca di contrasti cromatici, specie quando sotto una coltre di neve, l’orizzonte e il cielo neri e pastosi, e le gocce scarlatte a fare da punteggiatura, da attese.
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Fuga
Il mondo di un dodicenne è fuga. Questo di per sé. Se poi si somma il bullismo incidentale di un gruppo di prepotenti, la fuga diviene necessità.
Il ragazzo si chiama Oskar (Kåre Hedebrant), ed è impotente. Non può muoversi. Non può scappare. Non ha le risorse. Non ha la consapevolezza. Non ha neppure la volontà. Il clima gli è ostile. L’ambiente gli è ostile, la scuola, gli amici che non ci sono. La famiglia, peggio ancora, gli è indifferente e non vede i segnali di disagio che egli manda a livello inconscio.
Eppure c’è un desiderio di rivalsa. Di vendetta. Ecco perché il dodicenne si porta in tasca un coltello.
Con quella lama, quando troverà il coraggio e il momento, si libererà dei suoi nemici. E il mondo finirà. L’unico problema è che ancora non lo sa. E non lo saprà finché non sarà troppo tardi.
Fuggire, quindi, torna a essere l’unica alternativa. Ma, non potendo scappare fisicamente, resta la fuga della mente.
Una notte giunge Eli (Lina Leandersson), insieme al suo papà. Anche Eli ha dodici anni, più o meno, e anche lei fugge. Ha sempre fame, ma non può mangiare. Non ha freddo e non ricorda neppure il perché. E la sua esistenza, spezzata tempo addietro, ha dimenticato di evolvere e si trascina stanca e monotona, notte dopo notte.
L’errore è essersi affidata ai servigi di un adulto completamente soggiogato al suo volere, incantato dalla sua maestà, e incapace di provvedere al suo bisogno di sangue. L’altro errore è essersi stabilita in una comunità ristretta, essersi resa riconoscibile e aver iniziato a uccidere, a predare.
I due ragazzi si conoscono. Si piacciono. Si scoprono reciprocamente. Il mistero di chi non ha visto ancora nulla perché troppo presto e, di contro, di colei che, avendo già visto, ha dimenticato perché trascorso troppo tempo.
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L’essere angelico
Ecco, pensando al fantastico, questo film di Tomas Alfredson, sceneggiato da John Ajvide Lindqvist, è esempio di come una storia contaminata, una fiaba nera che, per espressa volontà del proprio artefice, quindi, evada dal cosiddetto realismo contenga, in effetti, maggiore attinenza con la realtà e maggiore profondità di sentimenti di quanto possa vantare un film dedicato, votato all’introspezione e al melodramma.
Anche io ho avuto tredici anni. I ricordi legati a quella fase della mia esistenza si fanno nebulosi, non tanto nell’essenza storica, quanto nella percezione. Ricordo i fatti, ma non come ero in grado di viverli allora.
Mi riferisco alla capacità di apprendere, di accettare certi cambiamenti, certe scoperte, certe pulsioni. Certe verità innate.
Trattasi di un amore tra un ragazzo e un vampiro, presumibilmente secolare.
La forza della storia, la sua verosimiglianza, il gusto e la sobrietà con la quale essa viene narrata sono tali da rendere superflua e accessoria la natura immortale di uno dei due. Il rapporto di scambio ed esperienza reciproca è assoluto.
Accanto abbiamo lo scatenarsi della furia del mostro. Il bisogno di nutrirsi, il suo totale distacco dalla realtà. La gestione delle cose dall’alto, tipica di una creatura più simile a un dio, o a un angelo, che a un essere umano. Una creatura che, tuttavia, anela a tornare sensibile.
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Oskar ed Eli
Oskar diventa forte e sicuro di sé. In questo senso egli è umano, troppo umano. La sua sicurezza deriva dalla baldanza di avere stretto un legame con una ragazza, mentre i suoi compagni di scuola, anche i bulletti che lo perseguitano, stanno lì ancora ad atteggiarsi come dei mocciosi. Per la prima volta, sa difendersi da solo.
Eppure tutto crolla non appena Eli si allontana.
Di contro, il personaggio splendidamente interpretato dalla giovanissima Lina Leandersson è motivo principale di interesse. Il vampiro è un essere che sfugge anche alla sua sessualità. Non ha senso, per un vampiro, definirsi maschio o femmina. Più il tempo passa, più questa creatura immortale diviene aliena a sé stessa, ai propri ricordi, alla propria coscienza, al mondo. Ciò è evidenziato dal volto disteso e inerte dell’attrice, e anche dalla casa in cui Eli dimora. Senza mobili, priva di ornamenti, eccetto che un tavolino rotondo sul quale sono ammucchiati i pegni, più che i ricordi, di passate esistenze, di altre fughe necessarie che hanno costellato, com’è intuibile, la sua esistenza.
Separato dal resto del mondo e segnato da sconvolgenti rivelazioni accettate come anomalia, anzi, rarità. Il vampiro è essere raro. E alle cose rare, si sa, ci si affeziona.
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Echi
Non è stupido affermare che questo film si distingue dai suoi contemporanei proprio per la sua natura sospesa. Credo che un certo modo totalizzante e meccanico di fare cinema, soprattutto americano, stia giungendo anche qui. Di contro non tutto il nostro cinema è infetto. Si riesce ancora a mostrare senza condizionare. A non dire le cose, ma a suggerirle. A non educare, o redimere gli spettatori. A lasciarli liberi di trarre le conclusioni riguardo la presunta oscurità perversa di certi personaggi, lo scandalo di certe inquadrature, la sintesi sublime di un sentimento non comune.
Il mostro, il vampiro, in questo caso, torna nelle nebbie del mito, rendendosi nuovamente vulnerabile alla luce e impedito da antichi veti, come la necessità di essere invitato prima di poter accedere a una qualsiasi dimora, rivelandosi con un aspetto gracile e acerbo, serbando una ferocia che non è giustizialista, ma istintiva, che investe chiunque, come la collera di dio.
Realizzato con inquadrature statiche, che narrano restando lontane, illuminate da luce fredda, tali da proiettare Oskar nei dintorni dell’Overlook Hotel, sguardo sognante, vanesio, alla perenne ricerca del viso di Eli macchiato di sangue.
Unico difetto, da purista quale sono, è il respiro di Eli che sublima in vapore a causa del freddo. I vampiri non respirano, né emanano calore. Sono o mi piacerebbe che fossero squarci di esistenza. Simili a echi. Unico loro compito, ricordare ciò che erano e stare a osservarci da lontano, scegliendo, di tanto in tanto, uno di noi come custode. Per il resto, film poetico e pregevole.
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