Ci siamo, abbiamo fatto quello che fanno tutti: abbiamo aperto un blog, veicolo della nostra scrittura nell’internet.
Perché noi siamo scrittori.
Lo diceva anche Cicerone, non nel I sec. a.C., ma nell’era di internet, anno domini 2001:
“Times are bad. Children no longer obey their parents, and everyone is writing a book.”
Pur sussistendo ragionevoli dubbi sulla veridicità di tale affermazione, non cambia la sostanza, che è vera:
parliamo a un pubblico.
Perché tutti scriviamo libri.
In special modo dopo l’avvento dell’autopubblicazione.
Ci accorgiamo di essere percepiti. Ogni giorno di più. In concomitanza con l’aumentare delle cifre dei contatori del nostro sito.
C’è un momento in cui ne diveniamo dipendenti, capita a tutti: andiamo in crisi se le visite calano inspiegabilmente. Cerchiamo a tutti i costi di ricostruire un faticoso, e spesso ingrato, rapporto.
Dimenticandoci che, nell’era pre-internet, le cose non andavano così.
Al massimo, un autore riceveva le poche, ardite lettere di ammiratori o critici, spesso quelle che la stessa casa editrice voleva fargli arrivare.
Tempi andati.
Tempi diversi.
Non è detto fossero migliori.
Ora, ciò che conta è la percezione che noi altri diamo di noi stessi al nostro pubblico.
Tutto ciò che facciamo in rete riecheggia nell’eternità.
Perché la rete ha memoria.
Almeno finché ci saranno fonti di energia che la terranno in vita.
Eppure, per paradosso, nell’era della comunicazione globale, quando tutti noi siamo a portata di click, è davvero difficile entrare in contatto coi lettori. O meglio, stabilire un contatto che sia davvero utile, e proficuo.
Di pareri illuminati, spassionati, di gusto, o semplicemente critici ne abbiamo avuti ben pochi.
A fronte di ciò che continuano a dirci i contatori delle visite.
Si stima un livello di interazione ben più inferiore rispetto ai “like” sui social network, che si attestano in proporzione stabile di 1:100. In pratica, ogni cento visitatori, uno soltanto vi concede un “mi piace”.
Se invece andiamo a considerare il livello di interazione coi lettori, questa proporzione muta drammaticamente. Siamo, secondo me, a 1:500, forse 1:1000.
E questo vale anche per chi di “like” sulla propria pagina ne conta duecentomila. Avrà tante interazioni, vero, ma sempre poche, rispetto alla reale ampiezza del suo pubblico. In certi casi, forse, è una fortuna.
Noi proseguiamo il nostro lavoro, continuiamo a scrivere, e fondamentalmente andiamo alla cieca, non potendoci basare su dati di gradimento davvero concreti. Perché non è detto che i pochi pareri che giungono siano anche attendibili. Forse nella maggioranza del pubblico silenzioso si nascondono giudizi opposti, ma più veritieri.
Spesso, sul mio blog, ho sollevato la questione del perché, per un lettore che pure si dice fisso, il che vuol dire che visita il mio blog quotidianamente, sia così difficile trasmettere un segno di gradimento.
E le poche risposte che ho avuto sono state tutte evasive, arroganti e basate su un fondamentale disprezzo per la persona che ha posto la domanda: me, nella fattispecie. Come se il solo fatto di aver sollevato l’interrogativo avesse causato fastidio.
Siamo al punto di partenza: internet a parte, che è strumento utilissimo e indispensabile, non c’è poi molta differenza tra un autore dell’era pre-internet e uno moderno.
I contemporanei non riceveranno molti pareri concreti che possano aiutarli a capire dove la propria opera stia andando a parare.
I soli complimenti non bastano.
Le sole cifre dei contatori delle visite o i “mi piace” neppure.
Le sole critiche dei lettori insoddisfatti e perfettini nemmeno.
Mettendola sul filosofico (senza voler fare lezioni di filosofia): si è costretti, dunque, a ricorrere all’appercezione.
L’appercezione è “la percezione della percezione”. Una forma di percezione superiore, la definiva Leibniz.
Quell’intuizione che suggerisce all’autore di stare facendo bene il proprio lavoro, che consente allo stesso di proseguire, correggere o eliminare il suddetto lavoro, senza aspettare le pacche sulle spalle, o le critiche, senza ricercare un ossessivo (e dipendente, perché crea dipendenza) contatto con gli altri.
Ridimensionando istantaneamente il parere altrui alla giusta misura: ovvero importante (se è il caso, perché ammettiamo anche che i pareri dei lettori possano essere completamente errati e/o limitati), ma non indispensabile o vincolante.
L’appercezione, però, non è un potere. Così come non lo è la scrittura. Non viene dall’alto per intercessione del dio Apollo, che vi trasmette il potere della poesia.
L’appercezione è frutto di esperienza e studio.
Volgarmente, potrei dire che un vero autore, degno di questo nome, e quindi consapevole di sé e dei propri mezzi, in definitiva capace, sia già in grado di capire, una volta prodotta la sua opera, se questa sia valida o meno.
In pratica, se scriviamo stronzate, da autori quali diciamo di essere, dovremmo sentirne subito il puzzo. Altrimenti ci occorre un intervento chirurgico al naso.
Per i dettagli traditori ci sono gli editor. Ok, lo sappiamo.
Se non si è in grado di capire da sé se una cosa scritta/pensata fa schifo, allora forse è il momento di rimettersi a studiare, ché siamo carenti dei mezzi necessari. In pratica, stiamo usurpando un ruolo che (ancora) non ci compete.
Non possiamo dirci autori se non abbiamo il pieno controllo su lingua parlata, scritta, storia e personaggi e metodi di narrazione.
Siamo dei cialtroni cui l’internet ha concesso i mezzi per pubblicare comunque la nostra “opera”. “Opera” che non andrà molto al di là dello schifo con cui è stata messa insieme: le paludi dell’intelletto.
Ma non divaghiamo.
Un buon autore (o autrice), quindi, è colui/colei che è innanzitutto consapevole dei propri mezzi.
Altra cosa, indispensabile e che va a braccetto con quanto dichiarato testé, è che non ci si deve mai considerare fatti e finiti, o miracolati da Apollo: lo studio e l’esercizio nella scrittura devono essere costanti.
Saprete di aver fatto un buon lavoro e di essere progrediti quando, riprendendo tra le mani scritti di qualche anno prima, li considererete primitivi, colmi di imprecisioni che all’epoca nemmeno sapevate potessero esistere.
I lettori sono importanti, è vero, nessuno lo nega: sono i destinatari ultimi del vostro messaggio scritto. Ma la maggior parte di essi è interessata soltanto a leggere il prodotto finito, non vuole conoscervi, né consigliarvi. Non ha alcun interesse a farvi progredire.
Dovete essere voi a percepirli, a anticipare i loro stati d’animo di fronte alla lettura di un determinato capitolo, di fronte a un colpo di scena.
Dovete persino essere in grado di far cambiare loro idea.
Siate autori, quindi, e editor di voi stessi.
Ma sappiate che la scrittura è soprattutto un lavoro di squadra. Ma di questo ne parleremo in un altro momento.