Lo vedi, Logan Maxwell Hagege (pron: Ah-jejj), con fazzoletto annodato al collo e cappello old style, sembra figlio di quell’america del dopo-bomba dickiano, sfornato da quell’entroterra polveroso e desertico che amiamo odiare, perché giustamente celebrato e magnificato nei media e nelle arti più di quanto noi siamo mai riusciti a fare col nostro contemporaneo.
Formato sotto la scuola realista, se ne discosta volontariamente, convinto che l’arte debba mutare se stessa all’infinito.
Semplice intuire il cuore della sua poetica: il deserto del sud-ovest americano, i nativi, i colori accesi.
Perfezione e disciplina del tratto. E il sublime kantiano all’opera, probabilmente.
Quello che queste magnifiche tavole mi trasmettono, oltre al benessere derivante dalla contemplazione di tale ordinata policromia, è la serenità.
Forse è suggestione: credere di cogliere gli odori mai percepiti di quella terra lontana,
cogliere il vento che spettina i cespugli.
gli odori addolciti dal sole di mezzogiorno,
i richiami degli avvoltoi, degli insetti, dei coyote,
lo scalpiccio degli zoccoli sulla nuda roccia.
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