Ciò che molti, desiderosi di cimentarsi con l’arte (qualunque tipo di arte), non capiscono, è che essa non è negazione della tecnica, allo scopo di ottenere un risultato immediato, scevro di preziosismi per cui spontaneo, il più possibile vicino al concetto di ispirazione.
L’arte è un processo millenario, tramandatoci da chi ci ha preceduto. Dipingere un quadro nello stile di Klimt significa, innanzitutto, apprendere le basi della teoria artistica e soltanto dopo ottenere i risultati di Klimt. Studio, disciplina, approfondimento, spesso un vero e proprio lavoro di archeologia.
L’arte varia al mutare delle epoche e, con esse, la percezione.
Takato Yamamoto, classe 1960, ispira la sua produzione all’antica tecnica dell’Ukiyo-e.
L’Ukiyo-e era una forma di stampa artistica su tela, impressa con matrici di legno, sulle quali veniva riprodotto e colorato il disegno che, successivamente, era riversato su tela, e venduto in serie.
La riproduzione in serie rivela il reale scopo di questa tecnica. Non erano dipinti, e il loro essere riproducibili ne abbassava il costo, che arrivava a essere “popolare”, accessibile a tutti. Chiunque avrebbe potuto acquistare una stampa ukiyo-e e adornarvi la propria casa.
Siamo nel periodo Edo, tra il XVII e il XX secolo, e questo tipo di stampa ricorda, per ragioni economiche, come venne accolta la fotografia nella Londra vittoriana, dove le stampe fotografiche, per il loro costo contenuto, sostituirono, nelle classi medio-basse, il necessario arruolamento di un pittore cui commissionare un costoso ritratto.
Velocità di esecuzione, basso costo e ampia diffusione.
L’Ukiyo-e è modernità.
I soggetti erano scene di vita quotidiana: pescatori, lottatori di Sumo, paesaggi, un’onda gigante… (quest’ultima l’avete vista tutti, ci scommetto).
Takato Yamamoto ha fatto sua la tecnica dell’Ukiyo-e, cambiandone i contenuti. Da scene bucoliche, è arrivato a traferirvi i suoi incubi.
La fattura di queste scene è pregevole nell’estrema qualità del dettaglio. Fusioni di corpi smembrati, feriti, ricoperti da escrescenze carnose, mostri informi, e tuttavia composti come fossero ornamenti.
Ciò che colpisce, in questa estrema (quasi “ultima”) fusione tra moderno (il contenuto) e antico (la tecnica) è il risultato finale: a queste immagini sanguinose, che evocano strage, violenza, sofferenza, odori forti, corrisponde, in realtà, la serenità.
Non una stasi artificiale, come quella di un’istantanea. Anche la fissità di un’immagine suggerisce, come sappiamo, dinamismo.
Ma qui, nei lavori di Yamamoto, c’è serenita, immobilità, quella placidità propria dell’Ukiyo-e, che ha assorbito la violenza, il sangue, l’orrore, e li ha sommati fino a esprimere pura estetica.
La sostanza di cui sono fatti gli incubi perde non la propria efficacia, perché potremmo passare delle ore a indagare nel dettaglio delle tavole di Yamamoto, ma la propria essenza. Perché potremmo guardarlo per ore, ma non esserne disturbati, quanto solo affascinati. Placidamente.
Quasi come guardare paesaggi. Di morte, ma pur sempre paesaggi.
PS: non a caso, all’inizio, ho citato Klimt. Se vi è sembrato di cogliere degli echi di Klimt, nel lavoro di Yamamoto, è vero. L’Ukiyo-e, come spesso accade, venne via via abbandonato in Giappone, per diventare fonte d’ispirazione per gli artisti europei (Art Nouveau e impressionismo), ma anche Degas, Van Gogh e Klimt.