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La stagione dell’autodeterminazione – Black Mirror

Sempre più difficile trattare di Black Mirror, e non perché manchino argomenti, ma perché la realtà sta prendendo il sopravvento con una deriva distopica che, seppur prevista e cavalcata da Charlie Brooker, pare anticipare in velocità la corsa verso il precipizio sociale.
Sono fermamente convinto di una cosa: non distruggeremo il pianeta. Anche perché possiamo solo distruggere noi stessi.
Ma non arriveremo a quel punto. Riusciremo, però, a disintegrare la nostra società, annichilendo, come stiamo facendo, qualunque sfumatura che anche solo riecheggi lontanamente la parola “morale”, ormai sovraccaricata quasi esclusivamente di connotati negativi.

Il leit motiv di questa quarta stagione è l’autodeterminazione. Della persona, della macchina o, meglio, del , quella caratteristica indefinita e – ancora – indefinibile che rende la nostra intelligenza autocosciente.

Questo percorso all’autodeterminazione è più o meno evidente e copre tutti e sei gli episodi prodotti da Netflix.
Calo qualitativo e finali ottimistici che non sono davvero tali… non sono argomenti pregnanti. Io l’ho trovata coerente con gli sviluppi degli anni precedenti. Non è un caso, infatti, che Black Mirror susciti le critiche più aspre laddove (anatema!) sembra andare in contraddizione con quanto annunciato nel suo manifesto alle intenzioni, varato nel 2012 da Brooker stesso.

Ci si proponeva, infatti, di esplorare le controindicazioni, in stile bugiardino, dell’impiego della tecnologia sulla società, con una particolare vena distopica…

Vena che s’è presto traformata in dogma. Quindi ogni volta che un episodio non si conclude in modo tragico e nerissimo, si storce il naso.
Questioni da talebani – e non necessariamente interessanti – a parte, l’argomento autodeterminazione è parecchio caro a chi vi scrive, soprattutto se, come in questa quarta stagione, esso viene analizzato da un punto di vista “naturale”, considerato lo sviluppo coevo della tecnologia e il suo impatto sul vivere sociale e prevedendone con assoluta e tragica certezza i prossimi sviluppi.

Se, come sembra altamente probabile, per assistere al manifestarsi della prima singolarità – ovvero il momento in cui la prima intelligenza artificiale diventerà autocosciente – non dovremo aspettare che il 2045, è bene, come Brooker fa, porre l’attenzione verso idee già sfiorate nelle stagioni precedenti, l’autodeterminazione della macchina, della vita artificiale e il vuoto legislativo, e di morale comune, che esso comporta.
USS Callister, Hang the DJ, Black Museum, al di là del gusto sopraffino della messa in scena, che passa da toni di commedia a omaggi alLA serie fantascientifica anni Sessanta per antonomasia, prendono tutti spunto dal dilemma morale sulla considerazione che una forma di coscienza artificiale, sia essa completamente artificiale o derivativa, debbano avere nel nostro mondo.
E sebbene l’idea che dall’alienazione del padre (padrone) e creatore (USS Callister), forme artificiali di autocoscienza possano trovare la forza necessaria a liberarsi e – così facendo – dare un contributo decisivo alla propria autodeterminazione, trovandosi in un universo sconosciuto e ricco di insidie (il nostro, quello dell’internet), l’altra idea, quella che, tramite supporti opportuni, vuole la nostra coscienza sopravvivere al nostro corpo, ma, in qualche maniera, venire considerata una forma di vita inferiore perché non più organica, contribuisce a gettare ombre lunghe sul futuro che ci attende in quanto specie.
Laddove, d’altronde, in Hang the DJ, appare in netta contraddizione (ma forse è naturale anch’esso) un sistema che spinge le intelligenze artificiali, copie digitali di esseri reali, a ribellarsi a quello stesso sistema per autodeterminarsi e compiere la scelta più adatta al raggiungimento della felicità personale delle loro controparti reali.

Com’è probabile, ci macchieremo di crimini inimmaginabili (quale mettere una coscienza in un orsetto giocattolo), ma lo capiremo soltanto secoli dopo, quando torneranno i Lumi.

Arkangel e Crocodile contegono medesima esplorazione, ma da differenti punti di vista. È uno scontro di libertà dall’esito infausto quello tra madre e figlia, con la prima che vuole controllare la seconda. Entrambe cercano autodeterminazione, ma solo una ci riesce, a caro prezzo.
Crocodile ricalca l’antico detto romano: (homo) Faber est suae quisque fortunae. Null’altro da aggiungere, se non da evidenziare il sottile, costante e inarrestabile senso di alienazione.
Metalhead, d’altro canto, riprende il vecchio adagio, coi costruiti che si ribellano ai loro creatori. È quindi anch’esso uno scontro di libertà, dove la macchina intelligente non riesce a comunicare con l’essere intelligente per diversità assoluta e, semplicemente, segue il suo comportamento programmato (o istintivo, non fa differenza a questo punto), distruggendo sistematicamente quella che, per chissà quale ragione, viene percepita come entità nemica: l’uomo.

I had to fall
To lose it all
But in the end
It doesn’t even matter

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