Questo post è particolare, scaturisce da una serie di riflessioni maturate negli ultimi giorni, e oggi in particolare, da questa immagine vista su tumblr, realizzata dalla mia amica Poggy (questo il suo tumblr, visitatelo):
Immagine accompagnata da questa frase di Cesare Pavese:
Il problema della vita, quindi, è questo: come annientare la solitudine, come comunicare con gli altri
Da quando sono tornato online, silenziosamente, le riflessioni sulla natura della specie (umana), sono diventate il leit-motiv dei miei articoli.
Ma non solo semplice umanità: l’umanità rapportata a internet.
Ovvero, una quantità immane (gargantuesca, sì, è un aggettivo che gradisco molto) di carne che si è privata della consistenza e preferisce, ormai, riversare tutte le proprie sensazioni in rete, sotto forma di immagini (per lo più), o frasi.
Mettiamo da parte, per un momento, l’aspetto degenere di questo sistema di comunicazione. Ovvero, tutte le aberrazioni di chi ingolfa la rete con polemiche da due soldi, complottismo, indignazioni da discount 3×2 e ignoranza abissale (la storia del triceratopo ucciso da Spielberg grida ancora vendetta)…
Voglio invece fissare la vostra attenzione su un aspetto che mi sta particolarmente a cuore, al quale ho accennato spesso, da queste parti: nell’era della comunicazione globale, ben pochi sono disposti a comunicare.
Peggio ancora: ben pochi riescono a comunicare.
La gente è in contatto. Probabilmente, i sei gradi di separazione sono calati a quattro, o addirittura tre. Possiamo, volendo, contattare la nostra attrice preferita su twitter o facebook, etc…
Eppure, ci sentiamo soli.
E non solo, percepiamo, in crescendo, una forma di ostilità latente verso chiunque voglia semplicemente comunicare.
Il paradosso è dunque agli atti: la comunicazione globale ha alterato la nostra capacità di comunicare.
Ne discutevo con un’amica, qualche giorno fa. Lei pubblica un ebook e, oltre le attestazioni di stima, invero pochine, ciò che maggiormente ha ricevuto, statistiche alla mano, è stata indifferenza. Che può anche tradursi come ostilità, sospetto, diffidenza.
Tutto questo per aver osato pubblicare un ebook.
Niente di nuovo. Capita anche a me. E ad altri coi quali bazzico da anni in queste lande.
Ogni volta che proviamo a creare qualcosa di nuovo, ciò che maggiormente riceviamo è ostilità latente. Come se il semplice fatto di esistere, e non limitarsi solo a quello, quindi al contrario agire e produrre qualcosa, facesse uscire dai gangheri chi, invece, si limita a vegetare come un’oca da cui si produrrà il paté de foie gras.
Il nostro peccato, nell’era digitale, è tentare di comunicare. Probabilmente aver messo in vendita il frutto della nostra creatività è una cosa che irrita.
Ma le cose non cambieranno, finché ci sarà gente che ci supporta. Questo no. Noi continueremo. Ma non è questo il nodo di questo articolo.
Il discorso non riguarda neanche soltanto noi. Come al solito, s’allarga:
l’altro giorno ho aggiornato una applicazione del mio cellulare. Per caso ho notato il numero di download di quella stessa applicazione, qualcosa come 100.000.000 di download. A fronte di appena 4.000.000 di “mi piace” ricevuti.
Cioè, la gente fa fatica persino a cliccare un like di un prodotto che, quasi sicuramente ha gradito. Perché mai?
I motivi di tale scelta sono imperscrutabili.
È come se si godesse nel continuare a far parte della maggioranza silenziosa.
Non parliamo poi delle condivisioni.
A fronte, che so, di trecento visualizzazioni, coloro che condividono un post che hanno gradito sono: due.
Due su trecento.
Questo atteggiamento, che ripeto si riscontra ovunque nella rete, non fa altro che attestare il paradosso:
la rete non ha nulla di sociale, ma piuttosto è abitata da miliardi di persone che parlano da sole.
Una sorta di monologo universale, senza alcuno scopo, senza fine, incoercibile e assurdo.
E più il tempo passa, più si accentua questo distacco.
Un distacco profetizzato in un film che odio, Her, che odio per ragioni che esulano dal motivo per il quale invece lo guardo con terrore:
quelle legioni di persone, in strada, spalla a spalla, che ignorano il proprio vicino e parlano solo con il proprio cellulare.
Perché l’abbiamo già detto: la presenza umana, la presenza dell’altro è, in definitiva, un impegno.
Ed è un impegno che pochi, sempre meno, sono disposti a sobbarcarsi.
L’altro sa essere sgradevole, puzza, occupa spazio.
Molto meglio, antisettico, avere a che fare con degli avatar. Gente lontanissima, che non incontreremo mai, la quale ci cullerà con un sentimento puro. Ma falso. Perché immagine di un sentimento al contrario vero, che idolatriamo, ma del quale abbiamo una paura fottuta.
Ma andremo anche oltre. Perché gli avatar non sono esenti da ciò che più ci infastidisce, dell’altro: il giudizio.
Gli avatar non ci assillano con la loro presenza, ma, ciò nonostante, ci giudicano.
E quindi danno fastidio anche loro.
Dannno fastidio alla nostra sensibilità di bamboccioni cui tutto è dovuto, che vengono feriti da una parola storta, e ne fanno un dramma esistenziale.
Quindi meglio essere completamente soli, nella rete: vomitare immagini e parole, pretendendo che nessuno le legga, perché la nostra libertà non venga mai sfiorata dalle altre.
Un mondo di solitudine universale, ma interconnessa.
Speriamo almeno ci sia della buona musica e del buon caffè…
Link interessanti:
Il chiodo che sporge viene martellato
La solitudine del fotografo