Forse l’avete incontrata navigando (mai verbo fu più appropriato) in internet, alla ricerca di immagini evocative di antichi miti. E di orrori visionari.
Difficile è rinvenire, collegata alla sirena mostruosa, il nome di chi l’ha così sapientemente tratteggiata.
Sta di fatto che, una volta vista, la Mermaid Lamnidae (titolo originale dell’opera), non si dimentica.
David Gaillet, francese, artista digitale, è il suo creatore.
La sua fama anonima si deve, probabilmente, a questo suo unico lavoro. Magnifico.
Lui è un artista atipico, soggetto a visioni evocative, che sfiorano l’orrore, lo materializzano in apparizioni simboliche che mescolano suggestioni classiche, come il medico della peste, come i serpenti marini, gli orrori del campo di battaglia, con dettagli moderni: vestaglie di raso nero bordate di rosso, donne incinte di figli (o famigli) mostruosi, nobildonne, come la Baronessa Frankenstein del dipinto omonimo, impegnate a preservare la propria essenza corporea, la propria avvenenza e giovinezza con pratiche che, al di là degli intenti prometiani, ravvisano, nella loro cruda e al contempo moderna esecuzione, una filosofia cyberpunk.
La Baronessa ci appare con la pelle raggrinzita, lottare contro la propria mortalità, la pelle del viso stirata e deformata da aghi che, presumo, hanno la funzione di trattamento estetico basato su qualche scienza occulta e proibita.
Ma torniamo alla Sirena.
Guardandola rievoco subito alla mente un passo di letteratura contemporanea, scritto da Brian Keene, de I Vermi Conquistatori, che raggiunge proprio nell’apparizione della sirena, il cui canto malato strega i bambini sopravvissuti all’apocalisse della pioggia incessante inducendoli a tuffarsi per raggiungerla, il suo apice.
Una sirena mostruosa.
È l’apparizione degli antichi miti. Del mondo creduto impossibile, perché relegato nel fantastico.
In questo dipinto (digitale), ritroviamo tutta l’epica della scoperta di una creatura sconosciuta.
È una scena di pesca.
Non sappiamo quanto volontaria sia stata la battuta. Ha tutta l’aria di essere un rinvenimento casuale, e perciò ancora più terrificante.
Le reti sono state issate, e in esse è stata ritrovata una sirena.
Le sirene sono foriere di disgrazia. Predatrici, ingannatrici. Tra l’altro, comuni al folklore mondiale, tanto da farne, esattamente quanto il drago, elemento dell’inconscio collettivo. Strettamente legata al terrore del sublime che i mari sconosciuti, dai colori scuri e lividi in tempesta, soprattutto le profondità oceaniche suscitano.
Dei nostri oceani conosciamo pochissimo. Le profondità sono dimora di creature colossali, come il calamaro gigante, si pensa addirittura delle più vecchie specie di squali conosciute. La sirena è plausibile quanto l’immaginario fantastico: antica creatura restata confinata nel mito, al di là degli innumerevoli avvistamenti.
Ed ecco, che un esemplare resta intrappolato nella rete dei pescatori, che legano la sua pinna caudale a una corda e la tirano in barca, sotto una pioggia scrosciante.
La sirena è creatura di tempesta, attira i marinai verso gli scogli, verso una morte acquatica, maledetta, che li renderà spiriti vaganti per l’eternità, mentre lei divorerà i loro resti mortali.
La luce la fa stagliare, è la sirena la protagonista assoluta. La sua parte pesce è l’ultima cosa che vediamo, attirati come siamo dal busto perfettamente umano e, in secondo luogo, dal viso. File di denti aguzzi, rivoli di sangue, un ghigno e soprattutto, gli occhi che, lungi dall’essere opachi e smorti, come quelli dei pesci finiti in trappola, sono puntati su di noi, ci guardano, per sussurrarci antiche paure, l’ineluttabilità dell’incontro con lo straordinario che è lì che aspetta, al buio, di essere trovato.