Immaginate il deserto del New Mexico.
È profondamente diverso dall’idea di deserto che, probabilmente, avete. Secco, spruzzato di cespugli bassi, cinto da montagne che non lasciano passare nemmeno l’aria. Sferzato da tempeste di sabbia.
Immaginate una discarica, in questo deserto. E degli escavatori al al lavoro. E ancora, un’insolita platea di spettatori.
Centinaia di persone radunate in una discarica per assistere a uno scavo.
Stanno tirando fuori qualcosa.
La località è Alamogordo.
Dopo anni di dibattimento, di richieste di permessi e di timore superstizioso da parte degli oppositori, terrorizzati dall’idea irrazionale di disseppellire letteralmente “qualcosa che sarebbe meglio lasciare lì sotto”, il Comune ha autorizzato lo scavo.
L’obiettivo è trasformare una leggenda metropolitana in realtà.
Qualcuno, anzi, più di qualcuno, è convinto da quarant’anni che l’Atari, l’azienda leader nel campo delle console per videogiochi fino ai primi anni Ottanta, abbia seppellito nel deserto di Alamogordo quattro milioni di cartucce del suo videogioco più indigesto al grande pubblico: E.T. l’Extraterrestre (1982). Sì, derivato dal film di Spielberg.
Indigesto e, per questo, invenduto.
Quattro milioni di cartucce. Una montagna.
Un videogioco al quale si attribuisce il fallimento dell’Atari. E che era stato realizzato, in sole cinque settimane per esigenze contrattuali, da uno dei programmatori di punta, Howard Scott Warshaw.
Bisogna scoprire se la leggenda è vera.
Ci sono 4 milioni di cartucce seppellite sotto la sabbia, sotto altre tonnellate di rifiuti. Stanno lì dall’83. L’Atari chiuse l’anno successivo, il 1984.
E poi c’è Ernest Cline, l’autore di Player One, tra i tanti che, all’annuncio dello scavo, si mette in cammino, sulla sua Delorean, per testimoniare la diretta del probabile ritrovamento.
Pensateci, uno scrittore che vive circondato da opere di questa cultura, e che produce altra cultura, decide di adoperare una Delorean per farsi qualche centinaio di chilometri fino a giungere in una discarica di un paesino sperduto del New Mexico.
Ah, e durante il viaggio, Cline dà pure un passaggio, sempre sulla Delorean, a George R.R. Martin. Dovevano andare al cinema insieme…
Ecco, questa non è più cultura nerd, a mio avviso, questa è storia. Puro e semplice.
Storia della potenza di un videogioco che non fu un successo di vendite, ma che piazzò comunque oltre un milione di copie. È storia perché segna, indelebilmente, la vita di tante persone, le spinge a muoversi, a verificare un fatto realmente accaduto.
Per amore della conoscenza. Perché si narra che tutte le leggende abbiano un fondo di verità. Perché è bellissimo pensare che, agli albori della storia dei videogiochi, quando ancora in pochi intuivano quanto i computer e il digitale avrebbero influenzato la nostra vita, un’azienda in fallimento sia andata a nascondere le proprie vergogne nel deserto, quasi fosse, E.T. il videogioco, un cadavere di cui disfarsi senza lasciare traccia. Scavando, si dice nella notte, una anonima fossa, dove nessuno l’avrebbe più ritrovato.
Anonima, perché, di solito, si tiene traccia delle “sepolture” nella discarica, per sapere chi ha seppellito cosa, e soprattutto dove.
Ma qui, evidentemente, nel 1983, qualcuno ha allungato una mazzetta di banconote perché nei registri della discarica non figurasse alcuna informazione.
Resta solo una foto in bianco e nero, sgranata, del probabile evento. Una foto che ritrae un camion che getta pacchetti col la scritta Atari… e le vaghe testimonianze del personale dell’epoca. Che ricorda qualcosa del genere, ma che non può averne la certezza.
Nasce dal passaparola, magari davanti a qualche birra in qualche diner, la storia della Sepoltura di E.T. l’Extraterrestre, passa di schermo in schermo, di PC in PC, approda su internet, divenuta mito.
L’annuncio dello scavo suscita una reazione emotiva fortissima: gente da diversi stati d’America si mette in viaggio spontaneamente, ricordiamo per giungere a una cazzo di discarica, solo per testimoniare un evento che può sembrare ridicolo, ma che per molti ha segnato la rispettiva infanzia: un videogioco. O meglio, il destino che le cartucce invendute di questo videogioco hanno conosciuto.
C’è gente che, a cominciare da Warshaw, a causa di E.T. (anche se, a sentire lui, la colpa è di Steven Spielberg; sì, proprio lui che, interpellato circa la riuscita del videogioco, se ne dichiarò soddisfatto, e dette il placet) ha perso il lavoro, è stata costretta a cambiare vita, a reinventarsi.
Le ruspe scavano per ore, una tempesta di sabbia flagella gli spettatori, ricopre la Delorean di Cline, che s’è portato dietro, sul sedile del passeggero, un pupazzo di E.T. scala 1:1, coperta rossa compresa, ricopre lo stesso Warshaw, tra i più emozionati, che a ogni affondo dello scavatore ripercorre con la memoria gli anni trascorsi all’Atari, un ambiente di lavoro informale, dove ci si drogava, si facevano feste in piscina e si programmavano giochi semplicemente leggendosi il manuale fornito dalla stessa azienda.
Un settore nascente, in cui nessuno sapeva precisamente cosa stesse facendo, a cominciare dai programmatori, eppure lo faceva ugualmente. Che passò da qualche timida vendita a un giro d’affari, nel momento della massima espansione, di centinaia di milioni di dollari, che lasciò stupefatti i creatori di Atari per primi…
C’è un po’ di movimento, gli operai stanno chiamando a raccolta qualche esperto per una consulenza. Il pubblico freme.
C’è l’annuncio ufficiale: è stata rinvenuta una copia originale del videogioco E.T., un po’ malconcia, ma intatta, ancora sigillata nella sua busta.
Il pubblico esplode in urla e applausi. Warshaw quasi si commuove.
La cultura nerd ha trovato conferma nella realtà. La storia è autentica, la leggenda è storia.
Trovo quasi poetico che un videogioco ritenuto degno della spazzatura sia stato ritrovato, quarant’anni dopo, in quella stessa spazzatura, e abbia avuto la forza di commuovere quegli stessi utenti che, da bambini, l’avevano gettato via.
Una ridistribuzione del valore. Un evento che crea cambiamenti nelle coscienze. Un riscatto morale, per Warshaw, da sempre crocifisso per la sua creazione.
Poco importa che oggi la storia la faccia un oggetto che percepiamo come futile. Non parliamo qui, di guerre Napoleoniche, o di altri argomenti all’apparenza più gravi e seriosi.
Il fatto è che, ci piaccia o meno, i videogiochi (insieme ai fumetti, ai giocattoli e a tutto il settore dell’intrattenimento) determinano il nostro vivere sociale, creano scale di valori e affettività, contribuiscono a segnare le vite di ognuno di noi.
Sì, persino in positivo. Inutile negarlo.
Fanno parte della nostra realtà. Ora più che mai.
Tutte le altre considerazioni riguardo la presunta inferiorità intellettuale di videogiochi e affini, perdono ogni ragione di esistere, di fronte a eventi come questo.
Per la cronaca: le copie di E.T rinvenute ad Alamogordo non ammontano a quattro milioni, ma a qualche migliaio. Non comprendono solo quel titolo, ma diversi titoli prodotti nel corso degli anni dall’Atari, compresi quelli di maggior successo.
Si trattava soltanto di copie di magazzino che andavano smaltite quando fu tempo di chiudere bottega.
Sono state eliminate come qualunque altro rifiuto.
L’Atari non fallì a causa di E.T., che non è il videogioco più brutto di sempre (ce ne sono di peggiori), ma per una crisi settoriale del mercato dei videogiochi, ormai saturo, anche a causa del monopolio della stessa Atari.
Le copie rinvenute nel deserto sono ora di proprietà del Comune di Alamogordo, in quanto rifiuti collocati in una discarica del territorio cittadino.
Stoccate in un magazzino, probabilmente finiranno esposte in un museo di Storia Contemporanea.
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PS: se riuscite, date un’occhiata al documentario di Zakk Penn, Atari: Game Over, che narra proprio di quest’episodio.