Underground

La porta rossa

Quello della porta rossa è un meme in cui mi sono imbattuto di recente.
Portagonista è Pepe the Frog. Lungi, quest’ultimo, in questa circostanza dal rappresentare antipatici disvalori com’è d’uso, la nostra rana qui è uno studente di letteratura che si ribella all’interpretazione che di quella stessa porta descritta da Shakespeare la sua insegnante dà.
Si ribella in modo che potremmo definire costruttivo: si laurea in ingegneria, scopre non solo il viaggio nel tempo, ma addirittura nella “dimensione dei cartoni animati”.
Viaggia in questa dimensione per apprendere una delle tecniche di Naruto: quella per resuscitare i morti.
Torna nella nostra dimensione, resuscita Shakespeare, si fa accompagnare dal drammaturgo fino a casa della sua, ormai anziana, insegnante e le fa dire da Shakespeare in persona che la sua porta rossa non è, come voleva la professoressa, simbolo dell’ira, ma solo una cazzo di porta.
Rossa.

Ecco: cultura pop al suo apice. Possiamo riderne o averne paura. Il nostro guilty pleasure.
Che è sì piacere, ma non a discapito della prima parola: colpevole.

Il guilty pleasure con cui se la prendeva Theodor Adorno quando, sbarcato negli States, venne “aggredito” da gente tutta uguale con la maschera di Topolino.
I fruitori, o destinatari del prodotto artistico erano stati istituzionalizzati.
La pop culture è scomponibile, pone tutta la sua forza nell’immediatezza del simbolo e nella sua riproducibilità.
Arte industriale, da stampare ovunque, soprattutto sulle magliette, sui cappelli, sul fianco delle tazze da cui, come nei film, ingurgitiamo caffè fumante.

Tra le altre cose, Adorno aveva sperimentato la nascita di quel movimento che la cosiddetta cultura alta, o qualunque tipo di cultura, la bruciava: il nazismo.
Dalla sua ne aveva, di ragioni.
E, in America, era stato indagato dall’FBI, perché comunista, o perché se la prendeva con Disney, con quella cultura dominante che voleva cullare lo spettatore, togliendogli tutto.

La storia della porta rossa mi ha divertito, e spesso sono assolutamente d’accordo con la cosiddetta sovrinterpretazione da parte della critica, ma ciò che stiamo testimoniando, e che era chiaro ad Adorno già nel 1944, è l’incapacità per lo spettatore, fruitore, non già di interpretare il colore di quella porta, ma di aspettarsi che la porta sia di un altro colore.

In a film, the outcome can invariably be predicted at the start – who will be rewarded, punished, forgotten – and in light music the prepared ear can always guess the continuation after the first bars of a hit song and is gratified when it actually occurs. (Dialectic of Enlightenment, 1944).

Adorno trasformato in pop art

I cosiddetti “ragionieri”, coloro che hanno trasformato l’arte, soprattutto cinematografica, in un’industria, non vogliono assolutamente che lo spettatore sia legittimato ad agire spontaneamente, perché ciò lo destabilizza. E, di conseguenza, destabilizza il mercato.
Quello che gli viene offerto, e che il fruitore inconsciamente vuole, è, nell’arte, una successione di momenti prevedibili, magari appena sfumati per non risultare ciò che sono – copia di una copia di una copia – così familiari da poter essere assorbiti persino in uno stato di distrazione.
Vi risulta familiare, vero? Ne avete lette a decine di “recensioni” improvvisate di gente che lamenta di non riuscire a seguire un’opera, film, libro, perché questo domanda più concentrazione di quanta ne possiamo offrire noi, con un occhio sempre alle chat sul nostro telefono e l’altro calato a metà per la stanchezza.

La pop culture è – anche – questa estrema semplificazione che porta al rigetto di tutto ciò che richieda approfondimento, spinta autonoma del lettore.

Che, badate bene, è un livello di fruizione previsto nella teoria dell’arte. È il più basso, quello che porta il fruitore comune, che di solito non dispone di mezzi culturali particolari o ricercati, a percepire ciò che sta guardando come unicum, come opera particolare, come esercizio d’arte. Come quanto si entra nella Cappella Sistina. Si può non sapere cosa si sta guardando, ma non si può smettere di guardare.

Si può obiettare che persino la Cappella Sistina sia stata assorbita, specie nel dettaglio della Creazione, dalla pop art. Gli indici di Dio e di Adamo che si sfiorano sono stati estrapolati, decontestualizzati e riprodotti su scala industriale, ovunque.

Cioè che si è perso è il contesto intorno a quell’immagine, in nome di una fruizione immediata, senza problemi, distratta.

Oggi facciamo più fatica, passiamo molte più ore in ufficio, la società è instabile e percorsa da venti estremisti, che guardacaso, come in passato, criminalizzano la cultura, il futuro ci sfugge. Arrivati a sera a casa non vogliamo, giustamente, continuare ad affaticarci interpretando un film durante il quale abbiamo dormito, per lo più. Cerchiamo sano intrattenimento, semplice, prevedibile.
Forse è giusto così, o più che giusto, è inevitabile. Siamo colpevoli, dopotutto.

Forse, sarebbe altrettanto giusto, o sacrosanto, ogni tanto, cercare di capire perché quella porta è rossa.
Magari è solo un colore, è vero, e ha ragione Pepe the Frog. Magari, talvolta, dietro quella scelta si cela una scelta cromatica precisa, la cui comprensione può solo arricchirci.

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