Underground

La notte in narrativa

“The sky above the port was the color of television, tuned to a dead channel.” (NEUROMANTE, W. Gibson)

La narrativa è suggestione. O almeno lo era.
Prima che venissero gli editor-inquisitori a farvi le pulci, a verificare che a New York, il 15 Agosto del 1928 stesse davvero piovendo, e con ciò, correggere la vostra ambientazione falsamente piovosa, la narrativa era suggestione.
Di solito, in un romanzo, o in un film, la pioggia ha un significato preciso.
A meno che non vi piaccia l’acqua, è simbolica, riflette lo stato d’animo del personaggio.
Nel Noir, ad esempio, la pioggia lava le strade, e le colpe, e poi sì, c’è anche un valore estetico.

Insomma, non serve certo a coprire le corde e i dettagli che, ops, svelano che la Los Angeles di Syd Mead non è reale, vero?

Sì, ecco… sembra che, lungi dal voler rappresentare la malinconia, il fallimento esistenziale di Deckard, la pioggia fosse stata scelta da Scott innanzitutto per mascherare la finzione. Le scrosciate d’acqua servivano proprio a coprire l’artificialità dei set e corroborare la volontaria sospensione dell’incredulità.
Decenni più tardi, Villeneuve, nel frattempo soggetto agli editor del meteo con la penna rossa, ha giustificato la pioggia onnipresente in Blade Runner 2049 col mutamento del clima. E ci può anche stare.
Sta di fatto che in certe storie, la pioggia è diventata un topos. Insieme alla notte, all’induzione alla riflessione esistenziale, ai tipi singolari che la popolano.

È un po’ come il monologo di Taxi Driver: c’è gente strana, là fuori, di notte.
Mentre la città viene avvolta da una patina d’umido, l’asfalto bagnato raddoppia le fonti di luce, fornisce riflessi che sanno di doppelganger, delle vere personalità degli eroi e antieroi che si aggirano sul set: sopra la strada sono granitici, si sforzano di apparire immutabili, si tengono tutto dentro, i loro conflitti, i loro peccati; i loro riflessi al contrario vengono scossi, come, presumibilmente, le loro anime. Le strade vengono popolate da individui strani, ai margini, pericolosi e, per di più, c’è la reale possibilità che siano soli, visto che piove o è appena piovuto. Strade deserte, luccicanti, esteticamente più intriganti, e scarsamente popolate, perché la gente normale non vuole bagnarsi e i saggi amano usare l’ombrello quando piove. Ciò permette all’autore di focalizzarsi solo sul protagonista e non sulla folla che lo circonda.

L’ambientazione è il co-protagonista di ogni narrazione. Per questo deve concorrere attivamente alla creazione della storia. È un personaggio silenzioso, che corrisponde agli stati d’animo degli attori (siano essi in carne e ossa o cartacei). Non è un caso che il sole, in questi scenari perennemente plumbei, spunti proprio alla fine, a illuminare il presente del protagonista alla fine delle peripezie. Illumina lui/lei, ancora vivo, illumina i corpi senza vita dei nemici, oppure il presente svuotato, al quale si è giunti dopo un’intera notte di misteri risolti e combattimenti.

E non solo il clima, ma l’architettura. Immaginate la Gotham City di Batman nell’accezione più conosciuta e evocativa, colma di grattacieli addobbati con guglie e gargoyle, in cima ai quali Batman s’accovaccia, di vedetta. Guardatela moderna e spogliata del suo carattere nella trilogia di Nolan e ditemi che non avete avvertito, nel profondo, la differenza.
Oppure pensate alle megalopoli del cyberpunk, dove sui quartieri periferici e degradati dominano, sullo sfondo, i grattacieli delle mega-corporazioni. Che sì, incarnano l’autorità, il Potere, quel qualcosa, immancabilmente corrotto e/o arrugginito, cui bisogna sottostare, il senso d’oppressione e anche di impotenza della gente comune, che a quei mostri di cemento non pensa nemmeno di potersi avvicinare, che sono tanto alti da offuscare, similmente alle nuvole, lo spuntare del sole (ancora una volta, il finale di Blade Runner, col levarsi in volo della colomba insieme al comparire del primo raggio di sole). Governano il clima, oltre a determinare le fasi di un’esistenza, quella dei personaggi della narrazione, rigidamente controllata.

Il rischio c’è, ed è quello di riproporre, come poi sta avvenendo, non solo gli stereotipi della narrazione, per rifugiarsi nell’oasi della tranquillità narrativa, ma anche dell’ambientazione, creando una serie di canoni, o consuetudini, dalle quali diventa difficilissimo evadere. Si veda Altered Carbon, che visivamente parlando è un riciclo di Blade Runner e Ghost in the Shell.

Affidarsi al canone è un modo sicuro perché il pubblico di fruitori recepisca subito, e in misura corretta, il prodotto, perché non si scoraggi, annoi, perché sappia subito, in misura maggiore o minore a seconda delle anticipazioni concesse, con cosa ha a che fare.
Ma è anche un modo per fare film e romanzi tutti uguali.
Fino a creare una familiarità tale, non solo con le situazioni ma anche con il meteo, da appiattire qualunque velleità di sorpresa.
Se i personaggi muoiono poco prima che il temporale si risolvi per lasciar filtrare il sole, si rischia di generare noia, più che tensione, ogni qual volta si deciderà di ambientare una scena in una notte di pioggia.

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