La depressione è la notte dell’anima.
Ciascuno di noi che ha la sfortuna di affrontarla usa i mezzi che ha a disposizione. A volte insufficienti.
Alcuni l’affrontano come fosse un combattimento che dura tutta la vita, altri l’assecondano, l’amano addirittura, in un rapporto che degrada. Altri la esprimono attraverso il loro lavoro, quasi come succedaneo alla loro terapia.
Dawid Planeta ha provato a raffigurare la sua.
Dipinti neri, un mondo in perenne oscurità, dove viandanti solitari s’imbattono in piccole fonti di luce.
Che sono, il più delle volte, occhi di creature enormi.
Il mostro della depressione assume varie forme, tutte colossali, in un mondo sconosciuto, alieno, ostile per ciò che ci è dato sapere.
Il risultato è una serie di dipinti. Magnifici e terribili, a mio modo di vedere.
Perché, come sempre accade, il messaggio dell’opera d’arte è diverso e stratificato, e giunge a più destinatari, con intensità differenti.
In questo caso non ho vergogna ad ammettere che io la depressione la conosco.
L’ho frequentata per anni, l’ho mandata a tappeto, dopo che lei aveva mandato a tappeto me. Ce le siamo date di santa ragione per anni.
È un nemico subdolo, che anche sconfitto sta lì, nell’ombra, in agguato. Sempre.
E l’idea di un viandante solitario nel buio, un po’ maledetto, che porta una torcia e che incontra solo luci ingannevoli, corrisponde intuitivamente alla sensazione di disorientamento che mi ha accerchiato per anni.
E non c’è amicizia, non c’è medicina che tenga. È una lotta personale, il più delle volte impari, che ti costringe a conoscere te stesso più di quanto vorresti, o avresti creduto possibile.
E alla fine?
Alla fine sì, se ne esce più forti, più distaccati. Si scelgono meglio le lotte da portare avanti, i nemici con più saggezza.
Ma quella giungla buia, non si lascia mai davvero, la si guarda dall’alto, la si guarda con rispetto e timore. Entrarci è facile, basta scendere il pendio ancora una volta.