In questi giorni mi sono imbattuto in un paio di discussioni online.
Una sul celeberrimo “dare al pubblico ciò che chiede”.
La seconda sullo “stipendio degli youtuber”.
Sono due discussioni che, all’apparenza non hanno niente in comune.
La prima trae spunto dalla questione Chuck Finley.
Chuck Finley è il lettore-fantasma, un personaggio di fantasia creato da due bibliotecari con l’unico scopo di prendere in prestito dalla loro biblioteca dei libri.
Non libri qualunque, ma classici della letteratura condannati all’oblio da un parco lettori sempre più orientato verso la merda.
All’oblio, e quindi al macero, perché i libri dimenticati sono fatti sparire dalla damnatio memoriae dell’intelligenza artificiale che sovrintende al programma di gestione della biblioteca stessa.
Fredda, spietata, esegue calcoli che impongono a James Joyce e a Arthur Miller di scomparire perché “impopolari”. E, di contro, alla narrativa commerciale che “va per la maggiore” di essere sempre ben visibile e, quindi, di “avere successo”.
Non c’è meraviglia, in questo: qualunque social network, persino zio Gugle, usa criteri simili per privilegiare i post virali, immeritatamente o meno non importa, a discapito della qualità effettiva.
Perché la viralità è nient’altro che “ciò che il pubblico vuole”. Quello che, in teoria, gli piace di più.
I due bibliotecari sono stati puniti, ovviamente. Per truffa.
E ci può anche stare, perché la legge è come l’intelligenza artificiale, non guarda il romanticismo dietro le azioni, ma le azioni in sé.
Sono d’accordo.
E se, da un lato, proprio quei romantici hanno applaudito alla truffa dei bibliotecari in difesa della letteratura, anche se sono convinto che siano tutti romantici col culo degli altri, ovvero finché non c’è da pagare ammenda, dall’altro c’è chi ha levato gli scudi in difesa di ciò che il pubblico vuole.
Perché, vedete, l’imperativo è dare loro ciò che vogliono, senza se e senza ma.
E qui interviene la seconda discussione.
Capita che, su Youtube, grosse aziende che pubblicizzano i loro prodotti non vogliano essere collegate in alcun modo ad alcuni youtuber, perché creatori di contenuti razzisti, volgari, provocatori. Di fatto impedendo, a questi youtuber, di guadagnarsi da vivere, perché a costoro viene sottratto lo strumento per monetizzare dai loro video.
Anche qui, sacrosanto, da parte delle aziende in questione, che hanno un’immagine pubblica, e che su quell’immagine fondano la rispettibilità che si traduce nella fiducia nel consumatore, e in conseguenza negli acquisti, pretendere di non comparire in video ritenuti “pericolosi e dannosi”.
Ma il punto non è questo, quanto la selva dei commenti sotto l’articolo linkato, in cui, tra interventi illuminati che difendono la difficoltà, la perizia e i soldi che ci vogliono per produrre video, compeggiano a caratteri cubitali interventi come il seguente:
“Lavorare seriamente”.
È meraviglioso.
Anche se non è nuovo.
Io ho iniziato a produrre contenuti per il web dal 2009. E le cose erano così già all’epoca. Ma vado anche oltre, le cose erano così già dagli anni Novanta, quando i nostri genitori erano i primi a spappolarci le palle perché perdevamo tempo a giocare a “quelle stronzate” (giochi di ruolo vari, ndr) anziché, rispettivamente: “Andare dietro alle ragazze, ché sei giovane, devi pensare alle cose belle”, oppure, il più classico dei classici, “studiare per trovarti un lavoro serio”.
Perché, nell’anno del signore 2017, tutto ciò che è collegato all’intrattenimento, che pure è una macchina che macina miliardi di dollari all’anno e dà lavoro (sì, di che vivere) a decine di migliaia di persone, è ancora percepito alla stregua di una truffa (sì, proprio come quella dei bibliotecari), una truffa atta a scansare la fatica e il sudore della fronte del “lavoro vero”.
E non importa che questi soldi i produttori di contenuti multimediali li facciano grazie alla pubblicità, e che il pubblico non debba sborsare un solo euro per usufruirne (ricordate la sordida questione del “E tu pagheresti?“), l’idea che gente come me, o come qualsiasi youtuber riesca a camparci fa rivoltare lo stomaco alla “brava gente”.
Al pubblico.
Pubblico che, però, deve “avere ciò che chiede”.
Ebbene, viste che le reazioni, ovvero “ciò che chiede il pubblico”, vanno dal forcaiolo al disfattista, al sempreverde “mandiamoli a lavorare”, il pubblico non chiede altro che il vuoto cosmico.
Un deserto in cui tutti lavorano e ci si intrattiene guardando i cespugli che rotolano.
È tragico che, oggi, serva mettere in piedi una truffa perché i classici della letteratura non spariscano nell’immondezzaio che è “ciò che vuole il pubblico”, ma questa, ricordiamo, è la distopia che abbiamo creato. Una distopia abitata da gente “arrabbiata”, che per la maggior parte prova “la scorciatoia”, la via facile per fare i soldi “senza lavorare”, o meglio ancora “lavorare divertendosi”, e che si rompe il muso quando magari capisce che anche “per fare quei video di merda” ci vogliono disciplina e fatica. E che s’incazza quando si scopre a non volercele mettere.
Quindi meglio il deserto. Una società di uguali, tutti ugualmente disfattisti e incazzati.
La nostra distopia.
Godiamocela.
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Ne parla qui Davide e qui Angelo Sommobuta