Cinema spagnolo. È tutto qui, vicino a casa nostra, ma lontano anni luce.
Lo adoro, eppure mi fa rabbia. Perché queste cose stupende potremmo realizzarle noi, se il nostro cinema non fosse…
Vabbé, inutile ribadire ciò che è sotto gli occhi di tutti.
La fantascienza è arte. È bene iniziare a definirla così. Perché ho l’impressione che, se continuiamo a chiamarla solo “genere”, non verrà mai presa sul serio.
L’ho detto più volte, la fantascienza porta l’autore a sondare i limiti estremi dell’animo umano, spesso più del dramma. Perché, a differenza di quest’ultimo, essa è uno sguardo rivolto al futuro: individuale, o universale della nostra specie.
E qualunque cosa affronti l’assoluto, si avvicina all’arte e, spesso, lo diventa.
Se questo film non è arte, e non arrivo ad affermare tanto, mostra, se non altro, buon gusto.
Lo vedi e ti rendi conto che è stato pensato non per il pubblico, ma per l’autore, perché esso trasmettesse passione, un senso di malinconica bellezza sfiorita e un notevole pessimismo che sfocia in disperazione tanto assoluta quanto incomprensibile. Da lasciare indifferenti. E, credetemi, è una qualità.
Se avete letto la precedente recensione, allora potete capire l’abisso che c’è tra un film fatto per “proteggere gli spettatori” come giustamente sostiene Charlie, e imboccarli come cavie da tenere buone e da spremere, e un altro concepito per (tentare) di fare arte, questa sconosciuta.
La Hora Fría non è perfetto, né il nuovo capolavoro assoluto della fantascienza. Ma è una specie di miraggio per chi, come me, ha sempre pensato che certi film sono possibili anche da noi. E ancora, come noi li sappiamo fare.
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Perché c’è questa strana differenza nel sentire. E ora più che mai, leggendo i commenti degli spettatori su IMDb mi rendo conto che esiste.
La fantascienza che non rassicura e che non mostra alieni bavosi è messa nel ghetto sotto il gergo “europea”, da certa gente. Ma, se lo volete sapere, è anche la migliore.
Ecco, l’ho detto. E come tante cose dette e non più solo pensate, è una frase che prevede innumerevoli eccezioni.
Il cinema americano mi piace, lo sapete. Ma in questo momento l’Europa sta facendo meglio.
Qui siamo in un bunker. Scordatevi la luce del sole.
E ora, già questo incipit dovrebbe farvi sbavare e trascinarvi lontano dalle nostre classi di liceali piagnoni, insegnanti isterici e carabinieri che mangiano tortellini al ragù preparati da mammà.
Qui siamo in un bunker e c’è un bambino di otto anni, Jesùs, che è impegnato a narrarci la sua storia e quella degli altri occupanti la struttura.
Il bunker non ha bisogno di parlare. Tant’è che mancano le odiate voci fuoricampo a dare spiegoni. Quelle pareti spoglie, grigio scuro, quei corridoi e le stanze dall’arredamento spartano urlano apocalisse.
Che altro motivo ci sarebbe per vivere alla luce artificiale?
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Ma non illudetevi, non mi dilungherò parlando molto del film perché, mai come in questo caso, indulgere nei dettagli significherebbe rovinarne la visione.
Vi basti sapere che, così come i personaggi, anche il bunker stesso si rivela a poco a poco, tramite dettagli vintage, che richiamano alla mente le prime, bellissime stagioni di Lost e che, ed è questa la cosa più bella, suscitano interrogativi.
I televisori dalle linee arcaiche parlano con voci impostate e rivelano immagini in bianco e nero.
Risuona, tra gli interstizi, come un’eco nostalgica, musica di un’era che non c’è più, come questa.
Vi ricordate Fallout e il suo stile anni ’40 e ’50, e avete ragione.
E se lo avete amato, quel gioco, è impossibile non amare queste atmosfere così sapientemente ricostruite e omaggiate.
È capitata una catastrofe, lì fuori. E Jesùs, innamorato di Ana, una ragazzina più grande, studia per apprendere nozioni senza importanza, sperando, un giorno, di riuscire a vedere l’azzurro del mare che, finora egli ha ammirato solo sulle stampe attaccate alle pareti e sognato, ogni notte.
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Le giornate scorrono lente e tutte uguali, ma le risorse del bunker scarseggiano, mentre ci viene presentato, con sobrietà e lentezza un complesso quadro di distruzione totale che, pur nella sua componente “d’antiquariato”, si richiama a veri conflitti e ben noti, di quelli che costringevano gli esseri umani ad andarsene con numeri di serie stampigliati sul braccio ed altri, sepolti, che sono rimasti solo leggenda, come le voci sugli esperimenti condotti da alcuni reparti militari giapponesi che, si dice, si divertissero a trapiantare teste di cane su corpi umani, di solito cinesi.
Sono solo voci, terribili. E in ogni caso il film nomi non ne fa, né esprime giudizi. Si concentra piuttosto sull’atmosfera rarefatta, sui reduci e sugli avvenimenti che caratterizzano il bunker che, ora lo sappiamo, è vasto come una città e, soprattutto, abitato… da qualcos’altro, oltre agli esseri umani.
Una strana pioggia di meteoriti accende di continuo il cielo stellato, visto attraverso un periscopio, quando le cose, lì sotto, precipitano. E diviene chiaro il senso del titolo, quella hora fria, l’ora fredda, che caratterizza i ritmi vitali del gruppo di superstiti.
Non è un film perfetto, ripeto. Ma è privo di moralismi, elegante e coinvolgente. Anche disperato, ma quel che conta, sorprendente, come la bellissima visione finale.
Guardatelo.
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